
Architettura immaginata
un saggio breve
Abstract
Il saggio esplora il concetto di architettura immaginata come spazio critico e creativo tra visione, utopia e sperimentazione, dalla produzione visionaria di Giovanni Battista Piranesi fino all’urbanismo provocatorio di Rem Koolhaas. Attraverso una rassegna storica che include Boullée, Sant’Elia, Wright, Le Corbusier, Friedman, Archigram, Superstudio, Archizoom e altri, l’autore mette in luce il ruolo dell’immaginazione come forza generativa nell’evoluzione dell’architettura e dell’urbanistica. Nella seconda parte, il saggio si confronta con le trasformazioni introdotte dall’intelligenza artificiale nella progettazione contemporanea, presentando un progetto sperimentale in cui oggetti d’uso comune vengono trasformati in architetture grazie alla mediazione algoritmica. Il gioco, la co-creatività e l’interazione con l’AI emergono come nuovi strumenti progettuali, aprendo orizzonti inediti per il futuro dell’architettura immaginaria.
1. L’architettura immaginata: da Piranesi a Koolhaas
L’architettura immaginata costituisce un ambito affascinante e complesso, in cui visione e creatività superano i limiti della realtà costruita, trasformando la progettazione in un esercizio di riflessione speculativa e fantasia radicale. Da Piranesi a Koolhaas, tale forma espressiva ha attraversato utopie, critiche sociali, sperimentazioni formali e visioni provocatorie, esercitando un’influenza profonda e durevole sul pensiero architettonico e urbanistico. Lungi dal ridursi alla dimensione costruttiva, essa si manifesta attraverso disegni, progetti concettuali e narrazioni visive, immaginando città e spazi che sfidano le leggi del possibile e contribuiscono a ridefinire l’immaginario urbano.
Al fondamento di questa esplorazione vi è l’immaginazione, intesa come facoltà mentale capace di generare rappresentazioni indipendenti dall’esperienza sensibile immediata. Non si limita a riprodurre elementi noti, ma li rielabora in configurazioni nuove, spesso inattese, aprendo così lo spazio a scenari alternativi che mettono in discussione le convenzioni dominanti e attivano potenzialità inedite (Sartre, 1940; Kosslyn, 1994). Questo potere combinatorio dell’immaginazione risulta essenziale per l’architettura, che diviene così uno strumento per prefigurare futuri possibili e per riflettere criticamente sul presente (Vygotsky, 2004).
L’opera di Giovanni Battista Piranesi, figura cardine dell’architettura visionaria del XVIII secolo, segna un momento inaugurale di questa dialettica tra realtà e immaginazione. Le sue celebri Carceri d’Invenzione raffigurano ambienti monumentali e labirintici, strutture surreali che sembrano espandersi all’infinito, sfidando ogni logica costruttiva tradizionale. Ben lontane dall’essere semplici esercitazioni grafiche, queste incisioni costituiscono autentiche esplorazioni dell’inconscio, capaci di suscitare al contempo angoscia e meraviglia, trasportando lo spettatore in un universo che trascende il reale (Ficacci, 2006). In Piranesi, l’antichità romana non è semplicemente documentata, ma re-immaginata, dando vita a una dimensione architettonica che influenzerà profondamente artisti e progettisti nei secoli successivi.
Proseguendo questo filone, l’architettura immaginata assume nuove forme nel pensiero di Étienne-Louis Boullée, i cui progetti concettuali spingono la monumentalità verso esiti estremi e simbolicamente densi. Il suo celebre Cenotafio per Newton — una sfera di proporzioni colossali pensata per evocare l’universo — rappresenta un esempio paradigmatico dell’incontro tra architettura, scienza e natura. Boullée indaga il potere delle forme geometriche pure e della luce, trasformando l’esperienza architettonica in un percorso emotivo e quasi spirituale (Rosenau, 1976). Pur non realizzati, i suoi progetti esercitarono un impatto determinante sul pensiero neoclassico e moderno, ampliando la nozione stessa di progetto architettonico.
Nel primo Novecento, Antonio Sant’Elia rilancia la dimensione immaginativa proiettandola nel futuro. Con la Città Nuova, l’architetto futurista elabora una visione urbana dominata dalla tecnologia, dal movimento e dalla velocità: una città dinamica, stratificata e verticale, capace di incarnare l’energia dell’epoca industriale. I suoi disegni, realizzati tra il 1912 e il 1914 e fortemente influenzati dal linguaggio del Futurismo, anticipano la morfologia delle metropoli moderne, segnate da grattacieli e infrastrutture integrate (Tagliaferri, 2010).
Negli anni Trenta, Frank Lloyd Wright propone una nuova idea di città e di architettura, fondata sull’armonia tra abitare umano e ambiente naturale. Il progetto Usonia esprime l’ideale di una società democratica e decentralizzata, basata su abitazioni accessibili ed efficienti, profondamente integrate nel paesaggio. Queste case incarnano i principi della semplicità, della funzionalità e della sostenibilità, mostrando come l’architettura possa servire la vita quotidiana senza sacrificare la qualità spaziale (Wright, 1945).
Una delle espressioni più visionarie di Wright è il Grattacielo Illinois (1956), una torre di 1.600 metri con 528 piani, concepita come città verticale autosufficiente, capace di ospitare uffici, residenze, alberghi e spazi commerciali. L’opera anticipava una nuova era urbana fondata sull’integrazione verticale delle funzioni e sull’impiego di tecnologie avanzate, come l’acciaio ad alta resistenza e gli ascensori atomici. Questo progetto si collocava all’interno della più ampia visione della Broadacre City, un modello urbano diffuso in cui la torre non rappresentava l’eccezione spettacolare, bensì un necessario centro di servizi in un paesaggio orizzontale e verde, dominato dalla proprietà individuale e dalla mobilità.
Mentre Wright sviluppa l’architettura organica, Le Corbusier elabora una visione più razionalista e sistemica. I suoi progetti utopici, come la Ville Radieuse e il Plan Voisin per Parigi, propongono una città funzionale, ordinata e immersa nel verde, capace di rispondere alle esigenze della modernità attraverso modelli spaziali rigorosi. Queste non sono solo visioni astratte, ma manifesti teorici che influenzano profondamente l’urbanistica del XX secolo (Le Corbusier, 1933). L’immaginazione lecorbusieriana si manifesta anche nelle sue opere costruite — basti pensare alla cappella di Ronchamp — dove forma, luce e spiritualità si fondono in una composizione poetica e innovativa.
Negli anni Sessanta, Yona Friedman propone una contro-visione basata su flessibilità, auto-organizzazione e partecipazione. Con la Ville Spatiale, Friedman immagina strutture tridimensionali modulari e sospese, che consentono agli abitanti di riconfigurare autonomamente gli spazi di vita. La sua architettura è pensata come processo aperto e democratico, capace di adattarsi ai bisogni mutevoli degli utenti. Il Manuale dell’architettura mobile (1975) radicalizza questi principi, fornendo strumenti operativi per l’autocostruzione e promuovendo un’urbanistica inclusiva e sostenibile (Friedman, 2006; 1975).
Nello stesso periodo, il collettivo Archigram spinge la sperimentazione ancora oltre, concependo città mobili, interattive e tecnologicamente avanzate. Progetti come la Plug-In City o la Walking City destrutturano la concezione tradizionale dello spazio urbano, proponendo un’architettura in continua evoluzione, in cui gli edifici diventano moduli sostituibili e dinamici (Sadler, 2005). Archigram fonde cultura pop, utopia tecnologica e linguaggio mediatico, anticipando molte delle istanze oggi associate all’urbanistica digitale.
Parallelamente, in Italia, gruppi come Superstudio e Archizoom utilizzano l’architettura immaginata come strumento di critica radicale al razionalismo e alla società dei consumi. Il Monumento Continuo e la No-Stop City non sono semplici provocazioni formali, ma dispositivi teorici che mettono in discussione le categorie stesse di architettura, spazio e abitare. Estendendo all’infinito lo spazio urbano o negandone la gerarchia, questi progetti propongono nuove modalità di percezione e di organizzazione del territorio (Branzi, 2006).
All’interno di questo paesaggio critico e sperimentale si colloca anche Roma Interrotta (1978), un progetto curatoriale ideato da Paolo Portoghesi che coinvolge dodici tra i più importanti architetti internazionali del tempo — tra cui Aldo Rossi, Robert Venturi, Colin Rowe e James Stirling — invitati a reinterpretare la pianta di Roma di Giambattista Nolli del 1748. Ogni partecipante sviluppa una visione personale della città eterna, elaborando nuove strategie progettuali che dialogano con la memoria, la stratificazione e la trasformazione urbana. Roma Interrotta diviene così una riflessione collettiva sulla città come palinsesto, mosaico di tempi, stili e narrazioni (Portoghesi, 1978).
Nel passaggio al tardo Novecento, la riflessione sull’architettura immaginaria trova una voce potente in Rem Koolhaas, il cui Delirious New York (1978) interpreta Manhattan come laboratorio paradigmatico della modernità. Attraverso il concetto di “Manhattanismo,” Koolhaas propone una lettura della densità urbana come condizione generativa, in cui la verticalità, la congestione e la sovrapposizione di funzioni diventano motori di innovazione. Ogni grattacielo è visto come un manifesto sperimentale, un dispositivo in cui l’immaginazione si concretizza nella complessità della città reale.
In sintesi, l’architettura immaginata non si esaurisce in un’esercitazione teorica o accademica, ma rappresenta una potente esplorazione del potenziale umano di trasformare il mondo attraverso la visione. I progetti, i disegni e le narrazioni prodotti in questo ambito non solo ispirano, ma attivano interrogativi fondamentali sul nostro modo di abitare lo spazio, stimolando una riflessione critica e aperta sulle possibilità dell’architettura come pratica culturale e intellettuale.
2. Architettura immaginaria e intelligenza artificiale: tra oggetti quotidiani, gioco e nuovi orizzonti urbanistici
Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale (AI) ha iniziato a esercitare un’influenza crescente su numerosi settori, dall’arte al design industriale, dalla medicina all’industria automobilistica, fino ad arrivare alla produzione letteraria. In ciascuno di questi ambiti, l’AI non si limita a ottimizzare processi esistenti, ma contribuisce attivamente a ridefinire le modalità creative e produttive, introducendo nuove logiche di interazione tra macchina e soggetto umano. Tra i campi più promettenti — e al tempo stesso meno esplorati sotto il profilo teorico — vi è quello della progettazione architettonica, il quale si presta particolarmente a un’indagine sui rapporti tra immaginazione, algoritmo e spazio.
Per comprendere appieno l’impatto trasformativo dell’AI sull’architettura, è utile tuttavia osservare in via preliminare alcuni esempi paradigmatici in settori contigui, dove la tecnologia ha già prodotto esiti significativi e culturalmente rilevanti.
Nel campo delle arti visive, l’intelligenza artificiale ha contribuito alla realizzazione di opere innovative che interrogano le nozioni stesse di creatività, originalità e autorialità. Emblematico in tal senso è il caso del Portrait of Edmond de Belamy (2018), un ritratto generato dal collettivo francese Obvious mediante un algoritmo di machine learning di tipo GAN (Generative Adversarial Network). Addestrato su migliaia di ritratti storici, l’algoritmo ha prodotto un’opera che si colloca in uno spazio interstiziale tra generazione automatica e scelta curatoriale umana. L’opera, battuta all’asta da Christie’s per oltre 432.000 dollari, ha sollevato interrogativi critici su cosa significhi produrre arte in un’epoca di intelligenze artificiali (Christie’s, 2018).
Anche in ambito letterario si moltiplicano sperimentazioni che coinvolgono sistemi AI nella generazione di contenuti testuali. La piattaforma Botnik, ad esempio, utilizza algoritmi predittivi per assemblare nuovi testi a partire da corpora preesistenti. Uno dei suoi progetti più noti è la scrittura di un capitolo “inedito” della serie di Harry Potter, intitolato Harry Potter and the Portrait of What Looked Like a Large Pile of Ash, che combina elementi noti dell’universo narrativo rowlinghiano in modo surreale e straniante (Botnik, 2017). Questi esercizi non hanno valore meramente ludico, ma sollevano questioni di fondo sull’originalità autoriale e sulle possibilità di co-creazione tra umani e algoritmi nel campo della narrativa.
Nel settore del design industriale, le applicazioni dell’AI sono già parte integrante dei processi di progettazione e prototipazione. La multinazionale Nike, ad esempio, impiega algoritmi per analizzare dati biometrici relativi al movimento umano, progettando calzature personalizzate che rispondono a specifiche esigenze biomeccaniche. L’uso dell’AI consente di passare da una logica seriale a una logica adattiva, in cui il prodotto è ottimizzato in funzione dell’individuo, anticipando il paradigma della mass customization (Nike, 2020).
Nel campo medico, l’AI ha mostrato un enorme potenziale diagnostico, particolarmente nei casi in cui è richiesta l’analisi di grandi volumi di immagini. Un esempio significativo è offerto da un progetto di Google Health, in cui un algoritmo è stato addestrato su oltre 90.000 immagini di retine per diagnosticare i primi segni di retinopatia diabetica, una malattia potenzialmente invalidante. I risultati hanno mostrato livelli di precisione diagnostica superiori a quelli mediamente raggiunti da specialisti umani (Google Health, 2019).
Infine, nel settore automobilistico, l’intelligenza artificiale costituisce il nucleo centrale dei sistemi di guida autonoma. Aziende come Tesla utilizzano reti neurali per elaborare in tempo reale i dati raccolti da sensori e videocamere installati nei veicoli, al fine di migliorare progressivamente le capacità decisionali del sistema. L’obiettivo è una guida sempre più sicura, adattiva e indipendente dal controllo umano diretto (Tesla, 2020).
Questi casi dimostrano come l’AI non rappresenti semplicemente una moda tecnologica o un espediente di automazione, bensì una vera e propria infrastruttura cognitiva in grado di ridefinire i confini tra creatività, previsione, produzione e decisione. È proprio in questa cornice epistemologica che si inserisce la riflessione sull’architettura, intesa non più soltanto come arte del costruire, ma come campo sperimentale dove l’immaginazione progettuale può essere potenziata, messa alla prova e riflessa attraverso gli strumenti dell’intelligenza artificiale.
3. L’intelligenza artificiale nel campo dell’architettura
Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale ha iniziato a ridefinire in profondità le modalità con cui architetti e progettisti concepiscono lo spazio costruito, elaborano alternative progettuali e interagiscono con i vincoli funzionali, ambientali e sociali dell’architettura contemporanea. Uno degli approcci più diffusi in questo ambito è l’impiego dell’AI per la generazione di design parametrico e per lo sviluppo di soluzioni progettuali personalizzate, basate sull’analisi di dati complessi e multilivello.
Strumenti come Generative Design, sviluppato da Autodesk, permettono di esplorare automaticamente migliaia di varianti progettuali, ottimizzando le scelte architettoniche in funzione di obiettivi multipli, quali l’efficienza energetica, la sostenibilità ambientale, il comfort termoigrometrico, la fruibilità spaziale o la riduzione dei costi. L’AI, in questo contesto, agisce come motore combinatorio e predittivo, capace di individuare pattern e correlazioni che sfuggirebbero all’analisi umana lineare (Autodesk, 2019).
Un esempio emblematico di applicazione avanzata di AI nel processo progettuale è l’Ordos Museum, realizzato dallo studio MAD Architects nella regione autonoma della Mongolia Interna. Il museo, dalla forma fluida e biomorfica, è stato progettato con l’ausilio di strumenti digitali avanzati in grado di ottimizzare l’involucro edilizio sulla base di parametri climatici, strutturali e formali. In assenza di tali strumenti, la complessità geometrica dell’edificio avrebbe reso estremamente difficile, se non impossibile, la sua realizzazione (MAD Architects, 2010).
Nel campo della sostenibilità ambientale, l’AI trova un impiego sempre più diffuso nei sistemi di monitoraggio e gestione intelligente degli edifici. Tecnologie come DeepMind di Google, originariamente sviluppate per ottimizzare consumi nei data center, vengono oggi applicate a edifici complessi per regolare automaticamente variabili come temperatura, umidità, illuminazione e ventilazione. L’obiettivo è ridurre i consumi energetici complessivi, garantendo al contempo il comfort degli utenti e contribuendo alla riduzione dell’impatto ambientale dell’ambiente costruito (DeepMind, 2018).
Anche la scala urbana è fortemente investita dai processi di automazione e predizione resi possibili dall’AI. Le cosiddette smart cities integrano intelligenza artificiale e big data per migliorare la gestione delle infrastrutture, dei trasporti, delle reti idriche ed energetiche, nonché per supportare la pianificazione urbanistica in tempo reale. Il caso di Singapore è particolarmente significativo: attraverso un sistema integrato di raccolta dati, l’AI è in grado di monitorare e prevedere con elevata precisione i flussi di traffico, consentendo interventi dinamici per la gestione della mobilità urbana e la prevenzione della congestione stradale (Townsend, 2020).
L’introduzione dell’intelligenza artificiale nella progettazione architettonica, tuttavia, non si limita agli aspetti tecnici e funzionali: essa apre anche nuove possibilità espressive e speculative. L’AI consente di esplorare forme, linguaggi e materiali che talvolta sfidano i paradigmi tradizionali del progetto, stimolando l’immaginazione e l’ibridazione tra arte, ingegneria e poetica dello spazio. È in questa direzione che si colloca il progetto Architettura immaginaria, intelligenza artificiale, che assume come oggetto di sperimentazione il rapporto tra creatività umana e tecnologia, trasformando elementi del quotidiano in dispositivi architettonici immaginari e destabilizzanti.
4. Il progetto "Architettura immaginaria, intelligenza artificiale"
Il progetto Architettura immaginaria, intelligenza artificiale rappresenta una sperimentazione creativa che impiega l’AI per trasformare oggetti di uso quotidiano in strutture architettoniche immaginarie. L’operazione non si limita alla generazione automatica di forme: è piuttosto un processo ibrido, in cui l’intervento umano orienta, modula e filtra l’attività algoritmica, stabilendo i parametri, le suggestioni e i vincoli della trasformazione. Elementi solitamente anonimi e marginali — come una banana, un libro, un accendino o una pianta — vengono così reinterpretati come matrici formali e concettuali per l’elaborazione di nuove architetture visionarie.
Tale dinamica progettuale presenta interessanti risonanze storiche, in particolare con il concetto di ready-made elaborato da Marcel Duchamp agli inizi del Novecento. Come noto, Duchamp propose oggetti comuni come opere d’arte, sovvertendo i criteri canonici dell’estetica accademica e introducendo una nuova idea di arte come atto intenzionale e concettuale. L’opera Fountain (1917), un comune orinatoio industriale presentato come scultura, è divenuta il simbolo di questa provocazione epistemologica. Come sottolinea Thierry de Duve in Kant After Duchamp (1996), l’operazione duchampiana non riguarda l’oggetto in sé, ma lo spostamento del suo statuto ontologico attraverso il gesto dell’artista e il mutamento di contesto.
Allo stesso modo, Architettura immaginaria non si limita a reinterpretare la funzione degli oggetti quotidiani, ma li sottopone a un processo algoritmico di ri-significazione formale. A differenza del ready-made, che mantiene intatta la sua struttura materiale, qui l’oggetto è riplasmato digitalmente: le sue geometrie vengono distorte, amplificate, estrapolate o ricombinate, dando origine a configurazioni architettoniche nuove, spesso paradossali, ma coerenti nel loro linguaggio interno.
Tuttavia, il ruolo dell’essere umano resta cruciale. L’intelligenza artificiale, pur generando infinite possibilità combinatorie, non opera in autonomia creativa: è lo sguardo del progettista a selezionare, orientare e interpretare le variazioni prodotte. In questo senso, l’AI non sostituisce l’atto creativo, ma lo amplifica, introducendo una dimensione co-generativa in cui immaginazione e calcolo si intrecciano.
Il progetto si pone così al crocevia tra arte concettuale, sperimentazione progettuale e teoria dell’autorialità distribuita. L’architettura immaginata che ne deriva non è solo forma, ma riflessione critica sui meccanismi della creazione, sulle soglie tra reale e virtuale, tra funzionale e visionario.
5. Il metodo
Dal punto di vista metodologico, il progetto Architettura immaginaria, intelligenza artificiale si sviluppa a partire dalla selezione di un oggetto d’uso quotidiano, scelto non in base a caratteristiche funzionali predefinite, ma per la sua capacità latente di suggerire forme, configurazioni spaziali o atmosfere architettoniche. L’oggetto, per quanto comune, può infatti evocare sin dall’inizio una determinata direzione progettuale, tanto in termini morfologici quanto simbolici.
Una volta selezionato, l’oggetto viene fotografato e l’immagine viene caricata all’interno della piattaforma AI “Reimagine” di Freepik, che consente di rielaborare visivamente il soggetto secondo le indicazioni fornite dall’utente. Questa fase rappresenta uno snodo cruciale nel processo creativo: è qui che si manifestano le prime metamorfosi e le prime tensioni tra il referente fisico originario e le sue possibili trasfigurazioni architettoniche. L’applicazione genera una serie di proposte visive (nel caso si opti per lo stile “photo”), spesso molto differenti tra loro, che necessitano di essere filtrate criticamente.
A questo punto, diventa essenziale mantenere un certo grado di continuità tra le caratteristiche formali dell’oggetto iniziale e le immagini generate: molte delle proposte vengono scartate proprio per eccessiva distanza morfologica o semantica rispetto all’oggetto di partenza. La scelta di una prima immagine "bozza" avvia una fase successiva di iterazione, in cui l’immagine viene sottoposta nuovamente all’AI con indicazioni correttive e ulteriori specificazioni. Si innesca così un ciclo generativo non lineare, dove l’esito finale non è mai completamente prevedibile, ma si costruisce gradualmente per approssimazioni successive.
Il percorso, infatti, non produce una corrispondenza immediata tra intenzione progettuale e risultato visivo: si configura piuttosto come una negoziazione continua tra la volontà dell’autore e la capacità interpretativa dell’algoritmo. Il progettista agisce sia come guida che come interprete, articolando un dialogo complesso fatto di input, selezioni, scarti e rilanci. L’obiettivo non è solo ottenere un’immagine suggestiva, ma far emergere un’architettura che, pur discendendo formalmente dall’oggetto d’origine, ne sviluppi le potenzialità latenti, configurandosi come una nuova entità dotata di coerenza funzionale, morfologica e narrativa.
Una volta individuata la configurazione architettonica definitiva, ha inizio la seconda fase del processo, basata sul dialogo con un’intelligenza artificiale conversazionale, nello specifico ChatGPT. Attraverso una conversazione guidata, si instaura un confronto critico sul progetto: l’AI viene interrogata sull’ipotesi strutturale, sulla distribuzione degli spazi interni, sull’organizzazione funzionale e sull’eventuale contesto di inserimento. Le risposte fornite non derivano da una lettura visiva diretta dell’immagine, ma da una serie di associazioni e riferimenti a casi simili presenti nei dataset addestrativi dell’algoritmo.
Anche in questa fase, la precisione e l'efficacia del dialogo dipendono fortemente dalla qualità degli input e dalla capacità dell’utente di correggere deviazioni interpretative. L’AI necessita di essere guidata per allineare le sue proposte alle intenzioni progettuali, garantendo una coerenza interna tra l’architettura generata e le sue componenti funzionali.
Successivamente, l’AI viene incaricata di generare una serie di immagini fotorealistiche degli interni dell’edificio, secondo quanto emerso dal dialogo precedente. Anche in questo caso, il processo richiede interventi correttivi e continue riformulazioni: l’algoritmo tende a proporre soluzioni standardizzate, non sempre rispondenti all’identità dell’oggetto architettonico generato.
Infine, le immagini selezionate degli interni vengono nuovamente elaborate attraverso l’intelligenza artificiale visiva di Freepik, al fine di migliorarne la qualità, la coerenza e il realismo. Anche questa fase è caratterizzata da un’interazione reiterata e riflessiva: l’utente agisce come regista del processo, definendo i margini entro cui l’AI può agire e correggendo eventuali dissonanze estetiche o semantiche.
Ne risulta un metodo progettuale che non si limita a utilizzare l’AI come strumento esecutivo, ma la incorpora come interlocutore creativo all’interno di un percorso esplorativo. L’architettura immaginaria che ne deriva non è solo il risultato di una trasformazione visiva, ma l’esito di un confronto articolato tra visione umana e intelligenza algoritmica, in cui l’oggetto d’uso quotidiano si trasfigura in dispositivo narrativo e generatore di spazio.
6. Il gioco e il cambio di paradigma nella creatività architettonica
Uno degli aspetti più rilevanti e innovativi del progetto Architettura immaginaria, intelligenza artificiale è l’introduzione consapevole del concetto di gioco come paradigma metodologico. Tradizionalmente associato all’infanzia e all’intrattenimento, il gioco assume in questo contesto un significato profondo e strutturale, che affonda le proprie radici nella riflessione culturale e antropologica. Come sottolineato da Johan Huizinga nel suo classico Homo Ludens (1938), il gioco è una componente originaria della cultura, un’attività libera e significativa che fonda molte delle forme simboliche attraverso cui l’essere umano costruisce il proprio rapporto con il mondo.
Per Huizinga, il gioco non è una mera evasione dalla realtà, ma un’azione dotata di senso e di regole autonome, capace di generare mondi alternativi. È in questa accezione che il progetto si appropria del gioco: non come attività accessoria o decorativa, ma come vera e propria strategia progettuale. Attraverso il gioco con gli oggetti quotidiani – reinterpretati come potenziali architetture – si sovverte l’approccio canonico al progetto, che spesso tende a privilegiare la razionalità tecnica e la funzione normativa. La dimensione ludica, invece, apre al possibile, all’imprevisto, al paradosso creativo.
Nel progetto, il gioco diventa quindi una prassi che ribalta i presupposti del design tradizionale, favorendo una visione fluida e non lineare del processo progettuale. L'atto di "giocare" con la forma, il contesto, e l’interpretazione dell’oggetto originario permette l’emergere di soluzioni spaziali non previste, che sfidano le convenzioni e aprono nuove possibilità espressive. In questo senso, la progettazione si emancipa dall’obbligo di coerenza funzionale immediata, per assumere tratti più speculativi e visionari.
Bernard Tschumi, in Architecture and Disjunction (1996), ha sostenuto che rompere con la logica sedimentata del progetto è una condizione necessaria per generare architettura realmente innovativa. Il gioco, secondo Tschumi, rappresenta una forma di discontinuità attiva, che permette di disarticolare i dispositivi abituali del progetto e di aprire spazi per il pensiero critico e la sperimentazione.
In questa prospettiva, l’intelligenza artificiale non viene concepita come un mero strumento operativo, ma come compagno di gioco: un interlocutore virtuale capace di offrire nuove combinazioni, interpretazioni e deformazioni della realtà. La collaborazione tra l’immaginazione umana e l’algoritmo genera un campo progettuale ibrido, in cui la rigidità del calcolo si combina con la leggerezza del gesto creativo.
Rivalutare il gioco in chiave progettuale significa, infine, liberare la creatività adulta da vincoli autoimposti, reintegrando la spontaneità, la curiosità e l’errore come elementi generativi. In questo senso, il progetto non solo ridefinisce le modalità di relazione tra uomo e macchina, ma propone anche una nuova idea di architetto: non più solo razionalista e tecnico, ma anche esploratore, giocatore, e narratore di possibilità.
7. Conclusioni
L’immaginazione costituisce una dimensione fondativa e strutturante del pensiero architettonico. Lungo la genealogia che da Giovanni Battista Piranesi conduce fino a Rem Koolhaas, passando per Étienne-Louis Boullée, Antonio Sant’Elia, Frank Lloyd Wright, Le Corbusier, Archigram e le esperienze radicali del secondo Novecento, il progetto immaginario si configura non come evasione dal reale, ma come autentico strumento epistemico, capace di generare visioni alternative, dispositivi critici e rappresentazioni simboliche che agiscono profondamente sulla cultura progettuale. In tale prospettiva, l’architettura immaginaria non si misura sulla base della sua edificazione, ma sul suo potenziale trasformativo rispetto al pensabile e al rappresentabile.
Il presente saggio ha inteso dimostrare come, in epoche differenti, l’architettura non costruita abbia assunto ruoli molteplici e stratificati: monumento all’assoluto (Boullée), grido utopico (Sant’Elia), denuncia dell’alienazione urbana (Archigram), critica dell'ideologia (Tafuri), narrazione prospettica di futuri possibili (Koolhaas). In tutti questi casi, laddove la realtà pone limiti tecnici, economici o normativi, l’immaginazione progettuale si rivela capace di aprire varchi, immaginare altrimenti, generare effetti reali anche in assenza di materia costruita. Come osserva Manfredo Tafuri (1976), anche i progetti non edificati producono un impatto: spostano l’orizzonte del pensiero architettonico, rinegoziano la relazione tra forma, ideologia e società.
In questa traiettoria teorica, la seconda parte del saggio — dedicata all’interazione tra architettura e intelligenza artificiale — non rappresenta un semplice aggiornamento tecnologico, bensì una prosecuzione coerente del discorso sull’immaginazione come strumento critico. Le tecnologie generative, se impiegate con consapevolezza e spirito riflessivo, possono infatti potenziare l’attitudine speculativa del progetto, ampliando le possibilità del disegno, delle narrazioni spaziali e delle rappresentazioni simboliche. L’AI non è vista, in questo contesto, come un algoritmo di ottimizzazione, ma come un agente dialogico in grado di destabilizzare il noto e suggerire alternative inattese.
Il progetto sperimentale descritto — in cui oggetti ordinari vengono rielaborati attraverso modelli generativi e restituiti come architetture immaginate — conferma come l’intelligenza artificiale possa contribuire alla costruzione di forme speculative coerenti, capaci di generare discorso, riflessione e nuove prospettive sullo spazio. Il fine non è la costruzione fisica, ma la produzione di significato: come in Boullée o in Archigram, ciò che conta non è l’oggetto, ma il pensiero che si incarna nella forma. Il progetto diventa così dispositivo narrativo, immagine critica, speculazione spaziale.
In tal senso, gli esiti della prima parte del saggio — centrati sulla funzione generativa e teorica dell’immaginazione architettonica — trovano una risonanza concreta e metodologica nella seconda parte, dove l’AI interviene nella trasformazione ludica dell’oggetto quotidiano. La dimensione algoritmica non cancella la soggettività progettuale, ma la sollecita e la amplifica. L’architetto si trasforma in curatore di possibilità, in regista di traiettorie formali emergenti, in interlocutore dell’imprevedibilità generativa del codice.
La riflessione sul gioco, infine, fornisce un’ulteriore chiave di connessione tra le due sezioni del saggio. Come ricordato da Johan Huizinga (Homo Ludens, 1938), il gioco è alla base della cultura umana, dell’invenzione e dell’esplorazione simbolica. Bernard Tschumi, in Architecture and Disjunction (1996), ne sottolinea il potere eversivo, la capacità di rompere la logica funzionalista e introdurre discontinuità produttive nel progetto. Nel contesto di Architettura immaginaria, il gioco si configura come metodo e linguaggio: la sperimentazione ludica — mediata dalla tecnologia — consente di eludere gli automatismi disciplinari, restituendo al progetto una dimensione aperta, interrogativa, plurale.
Ne derivano due principali risultati concettuali.
Il primo è che l’architettura immaginaria continua a rappresentare una risorsa fondamentale per la disciplina, in quanto spazio teorico in cui l’architetto può esercitare la propria capacità anticipatoria, speculativa e critica senza essere vincolato alla dimensione dell’edificabile. Essa agisce come laboratorio di idee, luogo della possibilità e del conflitto simbolico.
Il secondo è che l’intelligenza artificiale può essere pienamente integrata nel processo progettuale come partner dialogico e moltiplicatore di immaginazione, non in sostituzione dell’intenzionalità umana, ma come fattore generativo di variazioni, deviazioni e interpretazioni che alimentano la riflessione spaziale. Come evidenzia Mario Carpo (2014), l’era del digitale non modifica soltanto gli strumenti della progettazione, ma trasforma le condizioni epistemologiche stesse del progetto, riscrivendo i rapporti tra forma, dato e decisione.
In conclusione, il saggio propone di ripensare il ruolo dell’architettura immaginata non come retaggio del passato o parentesi marginale, ma come pratica viva e necessaria. In un’epoca attraversata da crisi ecologiche, tensioni geopolitiche e mutazioni tecnologiche accelerate, tornare a immaginare significa riaffermare l’architettura come costruzione di senso, come dispositivo poetico e politico capace di mettere in forma, anche senza costruire, un’idea altra di spazio, di società, di futuro.
Bibliografia essenziale
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