L’adozione
“L’adozione” è un racconto struggente e malinconico che affronta con delicatezza il tema della responsabilità emotiva, della fragilità dell’amore e della memoria dell’infanzia. Scritto con una voce narrante intima, riflessiva e punteggiata da un’ironia lieve ma tagliente, il testo scava nei meandri del ricordo per raccontare un episodio che da banale si fa simbolico, assumendo via via una risonanza quasi archetipica. La prosa è ricca di dettagli sensoriali e immagini poetiche (come le “creature cristalline” generate dalla cascata d’acqua), in grado di restituire il mondo così come viene percepito da un bambino: meraviglioso, surreale, ma anche crudele nella sua inconsapevolezza. Il racconto rievoca atmosfere che richiamano, per intensità affettiva e tono sospeso, certa letteratura di Natalia Ginzburg o di Erri De Luca, ma con echi dickensiani nell’idea di “adozione sentimentale” e di fallibilità umana. Il gesto impulsivo del piccolo protagonista – che si prende cura di un cucciolo trovato in giardino – diventa il pretesto per una riflessione più ampia sull’amore come istinto di protezione, desiderio di accudimento, ma anche come esercizio imperfetto e vulnerabile. Il tono resta costantemente in equilibrio tra il comico e il tragico, tra lo sguardo meravigliato del bambino e il rimorso adulto che rilegge l’evento alla luce della perdita. Senza mai scivolare nel didascalico, il testo si interroga in filigrana su cosa significhi davvero “adottare” qualcosa o qualcuno: è solo un atto di slancio? O richiede costanza, dedizione, attenzione? Il racconto – privo di retorica – lascia che sia il lettore a rispondere, consegnandogli un’immagine finale semplice e devastante nella sua potenza simbolica. Uno scritto che parla di infanzia, di abbandono, di cura e di colpa, attraverso il filtro di una memoria che ancora cerca perdono.
Musiche tratte da "Fairy Tales for Grown up Children" colonna sonora ufficiale del libro "Tutte le favole per bambini cresciuti".
“I was just a kid” è un breve racconto in forma spoken word che parla di innocenza, memoria e del dolore sommesso che accompagna la crescita.
Un momento dimenticato — e poi, per sempre, ricordato.
I was just a kid
I was five… or six.
Maybe seven.
It was the end of summer—or maybe autumn?
Honestly, who knows.
I was a kid. That’s what matters.
I was playing in the garden
when I saw it—
a tiny black thing, twitching in a puddle.
Not a leaf, not a bug.
Something… else.
Wet. Shivering. Sad.
A baby bat.
I didn’t scream.
Didn’t run.
I scooped it up in my shirt like a treasure.
Ran to my room, dodging questions like a pro.
You know, classic “I’m growing up, leave me alone” tantrum.
They bought it.
On my bed, I opened my shirt
and there it was.
So small. So alive.
Its wings were like little shadows
drawn on rice paper.
I stretched them out gently.
Then again.
And again.
Fascinated.
It felt like magic.
I was sure I’d become its mother.
I’d feed it. Teach it to hang upside down.
It would love me.
Forever.
But dinner was ready.
I panicked.
Couldn’t let them see it.
They wouldn’t get it.
I needed a home for my baby.
I picked my favorite stuffed toy.
Soft. Familiar.
It had a small pocket stitched on its belly.
I tucked the bat inside,
whispered a promise,
and left for dinner
like nothing happened.
I forgot.
Months later,
while playing,
the toy fell.
And something small and silent dropped out.
I knew before I touched it.
Tiny. Dry. Still.
He was gone.
I wasn’t cruel.
Just a child.
But I held life in my hands—
and let it slip.
Maybe that’s what growing up is.
Not the moments we remember,
but the ones we don’t.
He never flew.
But he lived,
for a moment,
in my heart.
Ero solo un bambino
Avevo cinque… o sei anni.
Forse sette.
Era la fine dell’estate — o magari l’autunno?
A dire il vero, chi lo sa.
Ero un bambino. È questo che conta.
Stavo giocando in giardino
quando lo vidi —
una cosina nera che si contorceva in una pozzanghera.
Non era una foglia, né un insetto.
Qualcos’altro.
Bagnato. Tremante. Triste.
Un cucciolo di pipistrello.
Non urlai.
Non scappai.
Lo raccolsi con la maglietta, come fosse un tesoro.
Corsi in camera, schivando le domande come un professionista.
Sai, il classico capriccio “Sto crescendo, lasciatemi in pace”.
Ci cascarono.
Sul letto, aprii la maglietta
e lui era lì.
Così piccolo. Così vivo.
Le sue ali erano come ombre
tracciate su carta di riso.
Le stesi delicatamente.
Poi di nuovo.
E ancora.
Affascinato.
Sembrava magia.
Ero certo che sarei diventato sua madre.
Lo avrei nutrito. Gli avrei insegnato ad appendersi a testa in giù.
Mi avrebbe amato.
Per sempre.
Ma era ora di cena.
Andai nel panico.
Non potevo farlo vedere.
Non avrebbero capito.
Avevo bisogno di una casa per il mio cucciolo.
Scelsi il mio peluche preferito.
Morbido. Familiare.
Aveva una piccola tasca cucita sulla pancia.
Infilai il pipistrello lì dentro,
gli sussurrai una promessa,
e andai a cena
come se nulla fosse.
Dimenticai.
Mesi dopo,
mentre giocavo,
il peluche cadde.
E qualcosa di piccolo e silenzioso ne uscì.
Sapevo già cos’era, prima ancora di toccarlo.
Minuscolo. Secco. Immobile.
Se n’era andato.
Non ero crudele.
Ero solo un bambino.
Ma avevo avuto la vita tra le mani —
e l’avevo lasciata scivolare via.
Forse crescere è questo.
Non i momenti che ricordiamo,
ma quelli che dimentichiamo.
Non ha mai volato.
Ma per un momento,
ha vissuto
nel mio cuore.







