I miei commenti e recensioni - Dal libro alla serie: Fondazione tra fedeltà e tradimento (e una carbonara veg nel mezzo)
- Nicola Vazzoler
- 21 set
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 22 set
Dopo aver scritto di Asimov come “architetto” in contrapposizione al “demolitore” Philip K. Dick, torno sulla saga di Fondazione per riflettere sulla sua trasposizione televisiva. Questa non vuole essere una delle solite recensioni generiche, ma un confronto fra libro e serie Apple TV (prodotta e sceneggiata da David S. Goyer, di cui avevo apprezzato il lavoro nella trilogia del Cavaliere oscuro di Nolan). Convergenze e deviazioni che mettono in luce la distanza fra l’eterno e il contestuale, e che questa volta mi riportano al vecchio dilemma: il libro è meglio del film?
Fondazione: dalle idee alla serie
Asimov non scrisse un romanzo “di personaggi”, ma un’opera monumentale che attraversa secoli. Fondazione è un racconto di idee: la psicostoria di Hari Seldon, la caduta dell’Impero, l’evoluzione delle società. Nei libri, i protagonisti durano poche pagine, poi cedono il passo al tempo lungo e ai processi storici. L’eroe non è mai un individuo, ma la civiltà stessa. È un’epica cerebrale, fatta di architettura concettuale più che di azione.
La serie di Apple prende in prestito nomi e concetti, ma sceglie un’altra strada. Trasforma un’epopea di idee in una space opera (tipo Star Wars per intenderci) fatta di volti ricorrenti, conflitti personali e spettacolo visivo. Dove i libri saltavano secoli, la serie stringe la lente su pochi personaggi, cambiandone persino i ruoli: Gaal Dornick e Salvor Hardin diventano eroine con poteri quasi soprannaturali; Hari Seldon muore subito e ritorna solo come ologramma (poi si rifà carne, inaspettamente, per poi morire nuovamente nella puntata successiva e infine scoprire che non era morto grazie ai poteri psichici di una veggente - spoiler: Gaal Dornick); Raych, marginale nei romanzi, diventa centrale. Un passaggio netto: dalla riflessione impersonale al dramma individuale.
La Dinastia dei cloni
La differenza più vistosa è la Dinastia Genetica, invenzione totale della serie. Tre imperatori clonati – Fratello Alba, Giorno e Tramonto – incarnano il potere dell’Impero. Idea davvero molto interessante e innovativa (e poi Lee Pace è davvero molto bravo oltre che molto bono). Nei libri, però, l’Impero era un’entità lontana, quasi senza volto; qui diventa un dramma familiare continuo, utile a dare un volto umano al potere ma estraneo all’opera originale.
Anche le “crisi di Seldon” cambiano natura. Nei romanzi sono nodi politici e diplomatici risolti con astuzia – celebre la massima di Salvor Hardin, primo sindaco di Terminus: “La violenza è l’ultimo rifugio degli incompetenti.” Nella serie, invece, Hardin è una Guardiana d’azione: la crisi non si risolve con la politica, ma con il combattimento, l’intervento della Volta e persino l’uso dell’astronave Invictus (inesistente in Asimov). Per di più, la celebre frase di Hardin viene messa in bocca ad un esponente di rilievo della "Church of the Galactic Spirit".
Ed è interessante notare come qui la differenza non sia solo narrativa ma semantica: nei libri di Asimov c’era la Cripta di Seldon, sobria sala di proiezioni pensata come strumento di conoscenza; nella serie diventa una “Volta” misteriosa e impenetrabile, quasi un oggetto magico, circondato da un alone di sacralità che non apparteneva al testo originale.
Il caso di Terminus è emblematico: in Asimov la crisi si risolve con la logica, in Apple con armi e coraggio individuale (spoiler: ultima puntata seconda stagione il pianeta viene distrutto dall’impero, differenza più che formale ma sostanziale rispetto al testo di Asimov).
Filosofie opposte
Qui si apre la vera frattura. Nei romanzi, la psicostoria funziona perché l’individuo non conta: le masse fanno la storia, non i singoli eroi. Nella serie, invece, i protagonisti determinano il destino della galassia. È una scelta che sacrifica la freddezza logica di Asimov per abbracciare un linguaggio televisivo basato su emozioni e azione.
In parte è inevitabile: la TV ha bisogno di volti stabili, archi narrativi e conflitti drammatici. Ma nel passaggio si perde il cuore della saga: l’idea che la storia sia guidata da società intere, non da pochi individui eccezionali.
Il libro o la serie?
Scrivendo di Douglas Adams, mi è capitato di dire che per una volta avevo preferito la serie TV al libro (Dirk Gently): lì il caos prendeva forma, i personaggi avevano corpo e ironia, e la storia funzionava meglio sullo schermo che sulla pagina.
Con Asimov succede il contrario. La serie Fondazione è accessibile, visivamente affascinante, ma tradisce la natura dell’opera originale. Nei libri il futuro si costruisce con la forza delle idee; nella serie, con i colpi di scena. Il libro rimane insuperabile non per nostalgia, ma perché il suo cuore – la psicostoria come architettura del tempo – non si lascia tradurre in immagini senza snaturarsi.
E quindi? C’è una soluzione al dilemma?
In fondo, non è una condanna ma una constatazione: libri e serie utilizzano linguaggi diversi. Uno parla ai secoli, l’altro agli spettatori del presente. Uno costruisce pilastri concettuali, l’altro emozioni immediate. La serie prende ispirazione, ma è un’altra cosa.
Così, stavolta, il vecchio mantra vale: il libro è meglio. Anche perché, come ricorda la bellissima sigla, la serie è “basata su” Asimov. E forse proprio qui sta il punto: quando si crea qualcosa di nuovo, è giusto che abbia anche un nome nuovo. Come nella cucina, la “carbonara veg” può essere buona, persino innovativa, ma resta altro dal piatto originale.



Mi è piaciuta molto questa recensione: non cade nella facile stroncatura, ma mette bene in evidenza come libro e serie appartengano a linguaggi diversi e parlino a pubblici diversi. È interessante il contrasto che sottolinei tra l’Asimov “architetto di idee”, dove i protagonisti sono le società e i secoli, e la trasposizione televisiva che invece punta su volti, conflitti personali e spettacolo visivo. Un approccio inevitabile, forse, ma che cambia la natura stessa del racconto.