I miei commenti e recensioni - Fondazione: l’architetto Asimov e il demolitore Dick
- Nicola Vazzoler
- 7 set
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 14 set
Finalmente sono riuscito a finirlo fra tempi morti e tempi vivi ma soprattutto sopraffatto e circondato dai tanti libri comprati e ancora non letti. Tsundoku, così la chiamano i giapponesi: l’accumulo di libri che si desidera leggere ma che, per varie ragioni, rimangono impilati o non vengono mai finiti. Ecco, Fondazione di Isaac Asimov è rimasto per mesi nella mia pila, ingombrante non tanto per mole fisica (anche per quella ovviamente), ma per il peso simbolico. Perché affrontare Asimov non è mai leggere un romanzo: è entrare in un progetto di architettura sociale, il più grande mai concepito nella fantascienza.
L’architetto
Hari Seldon inventa la psicostoria e con essa fonda Terminus, colonia ai margini della Galassia. Ma più che come città di piazze e strade, Asimov la racconta come un costrutto matematico: un luogo di equazioni prima che di mattoni, il sogno di un urbanista convinto che la storia si possa disegnare come un piano regolatore. Asimov scrive da architetto: ordina, pianifica, struttura.
Eppure, anche l’architetto più geniale scopre che il cemento può creparsi. Nel Piano Seldon le crepe arrivano sotto forma del Mulo, l’imprevisto mutante che manda in frantumi la previsione. Non è la guerra, non è la miseria: è l’individuo che rompe la massa, l’imprevedibilità che annulla l’algoritmo. L’architetto di Asimov non ha fatto i conti con l’anomalia (o come è facile presumere l’ha fatto apposta).
Il demolitore
Qui entra in scena Philip K. Dick. Laddove Asimov disegna linee rette e crisi ordinate, Dick scrive come se quelle linee fossero già state spezzate. I suoi mondi non hanno bisogno del Mulo: sono già incrinati, sghembi, abitati da simulacri e realtà che si dissolvono appena provi a metterci piede.
Asimov sogna il controllo della storia attraverso la scienza; Dick mostra lo smarrimento dell’uomo davanti a un mondo che non può essere compreso. È, in questo senso, il demolitore. Non perché goda a distruggere, ma perché toglie le impalcature e lascia che tutto crolli sotto il peso della percezione, dell’ansia, del dubbio.
La città di Terminus, per Asimov, è un laboratorio razionale, una città ideale come quelle del Rinascimento o la Ville Radieuse di Le Corbusier. Funziona, almeno finché resta isolata dal caos. Le città di Dick, invece, sono periferie marce, cupole claustrofobiche, deserti industriali. Se in Asimov l’ordine è minacciato dall’eccezione, in Dick l’ordine non esiste nemmeno: è una messa in scena che si sgretola appena la tocchi.
Ed è qui che ho sentito un’eco personale. In questo solco ho scritto Habitat Zero (racconto raccolto in Tutte le favole per bambini cresciuti). Anche lì la città è un organismo perfetto, algoritmico, ottimizzato fino all’ultimo gesto: una Fondazione senza il Mulo, un Terminus digitale dove l’imprevisto è ammesso solo al cinque per cento.
Ma proprio in quel contesto ho sentito il bisogno di inserire una crepa. Il protagonista, un architetto senza nome (forse perché ogni architetto oggi potrebbe esserlo), inizia a guardare altrove: nel volo di un uccello, in un caffè bruciato, nella nuvola che non segue la rotta. Non pianifica più, ma immagina. Non disegna più, ma intuisce. È il momento in cui l’architetto diventa fragile, e proprio per questo vitale.
Il finale della saga di Asimov, con Gaia e il ritorno alla Terra, conserva un ottimismo che oggi appare quasi ingenuo: la storia può ancora essere governata, basta scegliere l’opzione giusta, anche se a prezzo della libertà. Dick questo non lo direbbe mai. Per lui il ritorno alla Terra sarebbe solo un altro livello di illusione, un’altra bugia.
Ed è proprio in questa distanza che i due autori si respingono: Asimov è l’architetto, che disegna cattedrali di razionalità; Dick è il demolitore, che entra in quelle cattedrali e ne mostra subito le crepe, i fantasmi, le rovine. Io, nel mio piccolo, con Habitat Zero ho provato a stare in mezzo. Non la cattedrale perfetta, non la rovina in macerie, ma un’architettura che accetta la fragilità. Non un piano regolatore universale, non un crollo totale, ma uno spazio dove l’imprevisto possa esistere, dove la città non sia gabbia ma sorpresa.
Il mulo
Ecco perché leggere oggi Asimov resta fondamentale: perché ci ricorda la potenza della razionalità e la tentazione del controllo. Ma ci ricorda anche, attraverso i suoi stessi limiti, che abbiamo bisogno di Dick, e delle sue rovine. E, magari, abbiamo bisogno anche di racconti come Habitat Zero, che ci chiedono di immaginare un’altra via: non l’illusione dell’ordine, non la resa al disordine, ma la costruzione di habitat sensibili. Fragili, certo. Ma finalmente umani (lo ha tentato perfino Coppola in Megalopolis, con il suo architetto utopico e il materiale “magico” Megalon: un film romantico e ambizioso ma decisamente brutto — sì, lo so, “brutto” e “bello” sono categorie personali, ma in questo caso credo possiamo essere tutti concordi: Coppola no ja fatta).
Poi, certo, uno potrebbe anche accontentarsi delle piattaforme streaming, con i loro algoritmi che decidono cosa guardare al posto nostro: una versione domestica, e molto più noiosa, delle città algoritmiche. Ma se aprite Fondazione, ricordatevi che dietro ogni cattedrale di razionalità c’è sempre un Mulo pronto a rovinarvi i piani. E non parlo solo del mutante: parlo anche dell’animale, quello vero. Testardo, imprevedibile e capace di fermarsi in mezzo alla strada quando meno ve lo aspettate. Forse un’autentica e naturale forma di resistenza alla pianificazione totale. Ed è anche questo che cerco nelle mie recensioni: scoprire come i libri parlino di noi, tra razionalità e imprevisto.




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