I miei commenti e recensioni - Monumenti della biodiversità o della politica del non fare
- Nicola Vazzoler
- 51 minuti fa
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Questo contributo prende spunto da un saggio pubblicato su UrbanisticaTre e ne riprende l’impianto teorico in forma più discorsiva. I commenti e le riflessioni che ne possono nascere fanno parte dello stesso processo di lettura e interpretazione.
Il tema resta lo stesso: cosa accade quando alcuni spazi abbandonati, sottratti all’uso umano, diventano involontariamente luoghi di biodiversità. E se, in certi casi, il non intervenire possa essere considerato una scelta consapevole, persino politica.
1. La città come frammento
Scriveva Bernardo Secchi (La città del ventesimo secolo, 2008):
«Ben consapevoli dell’impossibilità di costruire una copia esauriente del reale, le ripetute descrizioni della città e del territorio di fine secolo fanno emergere il frammento, lo specifico, il locale, la differenza irriducibile mostrando che lo spazio della dispersione non è omogeneo e isotropo, quanto costituito da costellazioni di materiali frammentari tra i quali diviene importante stabilire nuove relazioni».
La città contemporanea appare sempre meno come un organismo unitario e sempre più come un insieme disomogeneo di parti, un pastiche di materiali urbani sul quale si sovrappongono sguardi, desideri e pratiche differenti. Nessuno di questi sguardi è esclusivo; tutti convivono, spesso senza una gerarchia chiara.
Secondo David Harvey (La crisi della modernità, 2010), la cultura postmoderna vede la città come “necessariamente frammentata”: un palinsesto di forme del passato e del presente giustapposte, un collage di usi correnti, molti dei quali effimeri. In questo scenario, il controllo complessivo dello spazio urbano — da parte delle discipline che ne regolano l’uso — si esercita solo per porzioni limitate, per frammenti appunto.
È all’interno di questo quadro che emergono con forza i luoghi dell’abbandono. Spazi sottratti alle pratiche che li avevano generati, esclusi o espulsi dai cicli economici e sociali dominanti, eppure tutt’altro che inerti. Luoghi che, proprio grazie alla loro marginalità, diventano protagonisti di processi spontanei di trasformazione.
Il presente contributo si concentra su questi spazi, cercando di leggerli non come anomalie o fallimenti, ma come occasioni di naturalizzazione. L’obiettivo non è quello di proporre nuovi usi o nuovi progetti, ma di interrogarsi sul senso che questi luoghi possono assumere all’interno di una cornice ambientale ed ecologica, quando l’assenza di intervento umano produce effetti inattesi e, talvolta, positivi.
2. Rovine, rifiuti, scarti
Nel linguaggio comune, così come in quello disciplinare — architettonico e urbanistico — gli spazi abbandonati dalla pratica umana assumono definizioni differenti. In questo testo mi soffermo su tre termini che tentano di descrivere tali luoghi, non solo in relazione alla loro forma o condizione materiale, ma soprattutto rispetto allo sguardo con cui vengono osservati e interpretati: rovina, rifiuto e scarto.
Si tratta di parole che possono essere utilizzate autonomamente, ma che risultano spesso profondamente interconnesse. Ognuna di esse implica una postura critica diversa e riflette un differente modo di attribuire senso a ciò che è stato lasciato indietro.
Nel primo caso, quello della rovina, si rimanda a una dimensione prevalentemente culturale. Lo spazio abbandonato diventa testimonianza di qualcosa che è stato: una traccia, un residuo materiale capace di raccontare una storia. In questo senso, la rovina è strettamente legata all’archeologia e al concetto di patrimonio. Come scrive Françoise Choay (L’allegoria del patrimonio, 1995), il patrimonio designa «un fondo destinato al godimento d’una comunità allargata di dimensione planetaria attraverso l’accumulazione continua d’una molteplicità di oggetti riuniti dalla comune appartenenza al passato».
Entro questa cornice, lo spazio abbandonato necessita di essere conservato, valorizzato o reso nuovamente leggibile. L’archeologia industriale ne è un esempio emblematico: una disciplina che intreccia storia, tecnologia, economia e architettura per indagare i processi produttivi divenuti obsoleti, trasformando ciò che resta in documento, memoria, talvolta risorsa.
Diverso è il caso del rifiuto. Qui il riferimento è inevitabilmente Rem Koolhaas, che individua nel Junkspace (2006) il vero prodotto della modernizzazione. Non l’architettura moderna, ma ciò che resta dopo che il processo di modernizzazione ha fatto il suo corso: spazi collassati, residuali, espulsi dalle logiche che li avevano generati.
In questa prospettiva, gli spazi abbandonati sono il risultato di trasformazioni economiche e sociali accelerate, legate più alla sovrapproduzione che alla dismissione consapevole o alla conversione. Diventano rifiuti non solo per inservibilità, ma anche per convenienza. A differenza della rovina, qui il giudizio è apertamente negativo: il rifiuto è ciò che la società decide di non riconoscere più come utile o degno di attenzione.
Il terzo termine, scarto, pur essendo spesso considerato sinonimo di rifiuto, assume un significato più articolato e, per certi versi, più operativo. Come osserva Sara Marini (Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, 2010), esiste una differenza sostanziale tra rovina e scarto: se la prima gode di uno statuto riconosciuto e di un ambito bibliografico consolidato, il secondo descrive una condizione di indeterminatezza e sospensione. Lo scarto racconta resti senza identità definita, senza una storia ritenuta degna di essere narrata, o con una storia considerata di poco conto.
Proprio per questo, gli spazi abbandonati intesi come scarti possono essere letti come territori “neutri”, zone di mezzo prive di un ruolo assegnato. Ma questa mancanza non è necessariamente una debolezza. Al contrario, come scrive Marini, essa rappresenta una riserva, un’opportunità da mettere in campo in un tempo non ancora determinato.
Il vuoto che caratterizza questi luoghi non va inteso come assenza. È un concetto complesso, spesso caricato di una valenza negativa, ma che in realtà è parte costitutiva di molti linguaggi espressivi. Il silenzio costruisce la musica, le pause danno senso alle parole, gli spazi vuoti definiscono le figure di un dipinto o di una scultura. Anche l’architettura si costruisce nel vuoto e, allo stesso tempo, lo racchiude e lo definisce.
È all’interno di questa condizione di sospensione che gli scarti territoriali diventano interessanti. Non perché pronti a essere riempiti o rifunzionalizzati, ma perché capaci di accogliere trasformazioni inattese, spesso sottratte al controllo diretto dell’azione umana.
3. Una regione smilitarizzata
Per comprendere meglio il significato di alcuni spazi abbandonati, è utile spostare lo sguardo dal singolo luogo al contesto territoriale più ampio. A titolo esemplificativo, il caso del Friuli Venezia Giulia risulta particolarmente emblematico.
Si tratta di una delle regioni più militarizzate d’Europa nel secondo dopoguerra, soprattutto fino alla caduta del Muro di Berlino. A partire dalla Pace di Vienna del 1866, questo territorio è stato attraversato da conflitti e ridefinizioni geopolitiche continue. Qui si sono combattute entrambe le guerre mondiali e, successivamente, la Guerra Fredda ha trasformato il confine nord-orientale italiano in una linea di difesa strategica del cosiddetto “blocco occidentale” nei confronti di quello orientale.
In questo lungo arco temporale non fu quasi mai perseguito il riuso delle strutture difensive esistenti. Al contrario, la loro costante implementazione ha prodotto una densissima stratificazione di infrastrutture militari, molte delle quali oggi risultano dismesse e abbandonate. Secondo uno studio della Procura Militare di Padova dei primi anni Duemila, in Friuli Venezia Giulia si contavano oltre quattrocento siti militari abbandonati: un numero impressionante se rapportato all’estensione territoriale e alla densità abitativa regionale.
Il risultato è un paesaggio disseminato di caserme, poligoni, basi logistiche, piattaforme missilistiche, spesso collocate in contesti marginali o agricoli, talvolta inglobate dalla crescita urbana, altre volte completamente isolate. Una presenza capillare che ha inciso profondamente sull’organizzazione dello spazio regionale e che oggi costituisce un’eredità complessa e difficile da gestire.
Una parte di questo patrimonio è stata nel tempo trasferita agli enti locali, un’altra è rimasta nella disponibilità dell’Agenzia del Demanio. In entrambi i casi, il tema del riuso e della riqualificazione si scontra con limiti evidenti: da un lato le risorse economiche, spesso insufficienti; dall’altro la collocazione geografica dei siti, che ne condiziona fortemente le possibilità di trasformazione.
Quando questi spazi ricadono in ambiti urbani o periurbani, il loro recupero viene spesso letto come un’opportunità. Restituire alla città aree rimaste a lungo inaccessibili significa ridurre il consumo di suolo, ricucire tessuti frammentati, introdurre nuovi servizi o spazi pubblici. In questi casi, le ex aree militari possono assumere il ruolo di vere e proprie risorse, talvolta anche economiche.
Diversa è la condizione dei siti collocati al di fuori dei centri abitati. Qui l’abbandono assume un carattere più silenzioso e prolungato. L’assenza di pressioni insediative, unita spesso all’inerzia amministrativa, ha creato le condizioni per l’avvio di processi spontanei di naturalizzazione. Spazi nati per scopi difensivi e strategici si sono trasformati, nel tempo, in luoghi sottratti quasi completamente all’uso umano.
È all’interno di questa geografia discreta e diffusa che si colloca il caso di Aquileia, che verrà affrontato nel capitolo successivo. Un contesto in cui l’abbandono non ha prodotto degrado evidente, ma ha aperto la strada a trasformazioni inattese, difficilmente riconducibili alle categorie tradizionali della pianificazione.
4. Aquileia: uno spazio lasciato in pace
Aquileia rappresenta un caso particolare all’interno di questo quadro regionale. Non tanto per le dimensioni dei siti militari dismessi presenti sul suo territorio, quanto per la loro collocazione e per ciò che è accaduto dopo la dismissione.
Nel settore agricolo più settentrionale del comune, a una distanza di circa due chilometri e mezzo dal centro storico, si trovano due aree militari dismesse nei primi anni Duemila: l’ex caserma Brandolin e una ex piattaforma di lancio missili, nota come sito n.2 Hawk. Entrambe sono rimaste a lungo escluse da qualsiasi forma di utilizzo e trasformazione, separate dal tessuto urbano e immerse in un paesaggio prevalentemente rurale.
Nel tempo, i due siti hanno seguito traiettorie differenti. L’ex caserma Brandolin è stata progressivamente coinvolta in un percorso di valorizzazione e razionalizzazione, avviato in collaborazione tra amministrazione comunale e proprietà pubblica. Un processo complesso, come spesso accade, che ha richiesto accordi, passaggi amministrativi, ridefinizioni di destinazione.
Diversa, invece, la sorte dell’ex piattaforma missilistica. Qui l’abbandono si è protratto senza interruzioni. Nessun progetto, nessuna trasformazione, nessuna vera pressione esterna. Il sito è rimasto sospeso, in una condizione di attesa indefinita.
Ed è proprio questa sospensione ad aver prodotto gli effetti più interessanti.
Con il passare degli anni, la flora e la fauna hanno progressivamente occupato gli spazi della base dismessa. Le superfici impermeabili si sono incrinate, la vegetazione ha colonizzato gli interstizi, le strutture sono diventate supporto per nuove forme di vita. Oggi l’area appare, a uno sguardo distratto, come un piccolo bosco: un frammento di naturalità difficilmente distinguibile dal contesto agricolo circostante.
Non si tratta di un processo pianificato, né guidato. Al contrario, è il risultato diretto di una assenza di intervento umano. Una condizione resa possibile da vincoli che, di fatto, hanno congelato l’uso antropico dell’area, impedendo qualsiasi trasformazione significativa. Quello che in origine era un limite si è trasformato, nel tempo, in una forma involontaria di tutela.
Il sito n.2 Hawk può essere letto oggi come un giardino inviolato, non progettato, non accessibile, non organizzato secondo logiche funzionali. Un luogo che richiama da vicino l’idea di terzo paesaggio formulata da Gilles Clément (Manifesto del terzo paesaggio, 2005): quegli spazi abbandonati o marginali che, proprio perché sottratti alle pratiche dominanti, diventano fondamentali per la conservazione della diversità biologica.
In questo senso, l’ex piattaforma missilistica di Aquileia non è un vuoto in attesa di essere colmato, ma un luogo che ha trovato una propria funzione ecologica. Una funzione che non si limita ai confini fisici del sito, ma che contribuisce a una rete più ampia di spazi residuali, corridoi ecologici, aree di rifugio per specie animali e vegetali.
Qui l’abbandono non ha prodotto degrado, ma trasformazione. Non una trasformazione guidata da un progetto, bensì da una successione naturale lenta, continua, difficilmente reversibile senza un intervento drastico. Un processo che pone interrogativi profondi sul modo in cui leggiamo e classifichiamo questi luoghi all’interno degli strumenti di pianificazione.
Il caso di Aquileia suggerisce che, in alcuni contesti, il valore di uno spazio non risiede nella sua immediata riattivazione, ma nella capacità di restare fuori dal ciclo continuo della valorizzazione. Una condizione fragile, certo, ma anche estremamente preziosa.
5. Monumenti della biodiversità
I casi descritti mostrano come, in determinate condizioni, la strumentazione urbanistica e l’inerzia decisionale possano produrre effetti indiretti e inattesi sul territorio. I piani urbanistici, pur essendo strumenti proiettati al futuro, agiscono sempre all’interno di un contesto in continua trasformazione. Attraverso norme e destinazioni d’uso, talvolta rigide, finiscono per incidere profondamente anche su ciò che non viene progettato.
Nel caso delle ex aree militari dismesse di Aquileia, la combinazione tra vincoli e assenza di interventi ha creato le condizioni affinché flora e fauna si appropriassero progressivamente degli spazi. Il risultato non è un semplice “vuoto urbano”, ma un serbatoio di naturalità che si è formato nel tempo, fuori da qualsiasi strategia intenzionale.
L’ex piattaforma di lancio missili diventa così uno scarto nel senso più pieno del termine: uno spazio con uno statuto urbanistico definito, ma privo di una funzione antropica riconosciuta. Eppure, proprio questa condizione di sospensione ha permesso l’emergere di una funzione diversa, non prevista, ma pienamente legittima dal punto di vista ecologico.
È in questo senso che tali luoghi possono essere definiti monumenti della biodiversità. Non monumenti nel significato tradizionale del termine, legati alla memoria storica o alla celebrazione di un evento, ma monumenti viventi, dinamici, capaci di cambiare, crescere, deperire e rigenerarsi. Monumenti che non si presentano come oggetti statici e isolati, ma come sistemi aperti, in continua relazione con ciò che li circonda.
Si tratta di sistemi complessi, costituiti da una rete di connessioni biologiche e ambientali che superano ampiamente il perimetro fisico del singolo sito. Luoghi che non funzionano per separazione, ma per scambio: tra interno ed esterno, tra specie, tra processi naturali e residui dell’azione umana. La loro forza risiede proprio in questa capacità di relazione, difficile da misurare senza strumenti specifici, ma evidente nei suoi effetti.
Questi monumenti non sono il risultato di una scelta progettuale consapevole, né di una strategia di conservazione pianificata. Nascono piuttosto come esito di un non fare antropico, di una rinuncia temporanea — o involontaria — al controllo totale dello spazio. Una condizione che mette in discussione l’idea stessa di progetto come atto necessariamente trasformativo.
Riconoscere il valore di questi luoghi significa accettare che non tutte le parti del territorio debbano essere attivate, valorizzate o rese produttive. Significa anche ampliare il lessico della pianificazione urbana e territoriale, includendo categorie capaci di descrivere e tutelare forme di valore che emergono fuori dalle logiche tradizionali dell’uso e della funzione.
6. Lasciare stare come scelta
Il riconoscimento dei monumenti della biodiversità pone una questione che non è soltanto tecnica o ambientale, ma profondamente politica. Se questi luoghi esistono e funzionano è perché, in un certo momento, qualcuno ha deciso — o è stato costretto — a non intervenire. Il loro valore nasce da una sospensione dell’azione, da un’interruzione del ciclo continuo di progetto, trasformazione e valorizzazione.
Nel dibattito contemporaneo sulla pianificazione urbana e territoriale, l’idea di non fare fatica ancora a trovare cittadinanza. Il territorio è spesso letto come una risorsa da attivare, un capitale da mettere a valore, uno spazio che deve produrre effetti misurabili, possibilmente economici. In questo quadro, lasciare uno spazio in una condizione di apparente inattività viene percepito come una mancanza, un fallimento, o nel migliore dei casi come una fase temporanea da superare.
Eppure, i casi descritti suggeriscono una lettura diversa. In alcuni contesti, l’assenza di intervento non è sinonimo di abbandono irresponsabile, ma può diventare una forma di cura indiretta. Una cura che non si esercita attraverso il progetto, ma attraverso la rinuncia al controllo totale. Una cura che accetta l’incertezza e riconosce il valore dei processi lenti, spontanei, non lineari.
Riprendendo ancora una volta il concetto di terzo paesaggio di Gilles Clément, questi spazi residuali e marginali — presi singolarmente o come sistema diffuso — svolgono un ruolo fondamentale nella conservazione della diversità biologica. Non perché siano progettati per farlo, ma perché offrono condizioni di rifugio, continuità e sperimentazione che altrove vengono negate.
Riconoscere i monumenti della biodiversità significa allora ampliare lo sguardo della pianificazione, dotandola di un lessico capace di includere anche ciò che sfugge alle categorie tradizionali di uso, funzione e rendimento. Significa ammettere che non tutti i vuoti devono essere colmati e che, talvolta, lasciare le cose come stanno è la scelta più responsabile.
Per le amministrazioni locali questo comporta una presa di posizione non semplice. Richiede il coraggio di difendere spazi che non producono consenso immediato, che non generano rendite visibili, che non si prestano facilmente alla narrazione dello sviluppo. Ma richiede anche la capacità di riconoscere che il valore di un territorio non si misura solo in termini di trasformazione, bensì anche nella sua capacità di accogliere la vita, nelle sue forme più diverse e imprevedibili.
In questo senso, i monumenti della biodiversità non chiedono di essere celebrati né monumentalizzati. Chiedono piuttosto di essere riconosciuti per ciò che sono diventati, e di essere lasciati, quando possibile, in pace.




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