top of page

I miei commenti e recensioni - Superman è morto. Abbasso Superman

  • Immagine del redattore: Nicola Vazzoler
    Nicola Vazzoler
  • 30 nov
  • Tempo di lettura: 14 min

Aggiornamento: 1 dic

Ho visto l’ultimo Superman di James Gunn questa estate e l’ho rivisto a casa, a distanza di mesi. Dopo aver letto molte recensioni contrastanti ho potuto finalmente formulare una visione più chiara del film. La seconda visione, senza l’effetto sala e senza l’entusiasmo da “evento”, permette di mettere a fuoco ciò che davvero funziona e ciò che invece non regge alla distanza. Ed è chiaro che oggi, più che parlare del singolo film, bisogna interrogarsi su cosa sia diventato Superman — e su come lo stiamo raccontando.


Perché Superman non è semplicemente il primo supereroe moderno: è una figura che attinge da un immaginario molto più antico. Lo ha notato Igor Sibaldi quando ha messo in relazione Kal-El con Caliel (o Kaliy’el), diciottesimo Soffio angelico del Coro dei Troni, amministratore delle energie saturnine ("Il Libro degli Angeli. I 72 Angeli nella tradizione cabalistica", Edizioni Sperling & Kupfer). Il nome, “Dio che esaudisce” o “Dio pronto a soccorrere”, non è un dettaglio folkloristico: corrisponde in modo quasi letterale alla funzione morale del personaggio.


Il Superman delle origini — il bambino salvato da Jor-El e inviato sulla Terra — ricalca la struttura simbolica dell’“angelo custode”: una creatura esterna al mondo umano che si assume il compito di proteggerlo dalle sue stesse ingiustizie. Questo aspetto, più ancora dei poteri, definisce l’identità del personaggio. È ciò che lo distingue, ciò che giustifica il suo ruolo nella cultura pop, ciò che spiega perché sia diventato un archetipo.


Ogni epoca, però, reinventa questo archetipo a propria immagine. E non tutte le epoche sono in grado di reggerne il peso.


Rivedendo il Superman di Gunn, la questione non è se il film sia divertente o tecnicamente efficace — in parte lo è. Il punto è un altro: quanto resta del significato originario del personaggio? Quanto rimane dell’idea di Kal-El come figura morale, simbolica, culturale? E quanto invece è stato sacrificato alle esigenze del mercato, del “tono”, della riconoscibilità autoriale, dell’inserimento forzato in un universo narrativo da far ripartire?


In altre parole: non è Superman ad aver perso identità. È il sistema che oggi lo racconta a non saper più cosa farne.



II. I tre Superman: anatomia di una metamorfosi culturale

Per capire dove siamo arrivati con il Superman di James Gunn, è necessario guardare indietro. Non perché la nostalgia sia utile — spesso non lo è — ma perché ogni trasposizione cinematografica di Superman ha funzionato come una cartina tornasole della propria epoca. Tre film, tre decenni diversi, tre modi di affrontare lo stesso archetipo: il mito classico, il mito fratturato, il mito pop-seriale.


1. Richard Donner (1978) — Il mito classico

Il Superman di Donner non nasce come film di supereroi. Nasce come tentativo di dare forma cinematografica a un’icona culturale che, fino a quel momento, era stata confinata tra fumetti, radio e televisione. La sua forza non è negli effetti speciali — oggi datati — ma nella grammatica scelta per rappresentarlo. La colonna sonora di John Williams è costruita come un atto fondativo, un inno identitario. Il montaggio segue i principi del cinema classico: epica lineare, passaggi netti, nessuna ambiguità morale. Superman è rappresentato come il “Boy Scout of America”, figura trasparente, buona per definizione, moralmente incrollabile.


In un’America ancora segnata dal Vietnam e dallo scandalo Watergate, Donner ricostruisce il mito: dà al pubblico un eroe che non chiede nulla e offre tutto. La sua è un’operazione di restauro culturale.


2. Zack Snyder (2013) — Il mito interpretato

Arriviamo a Man of Steel. Qui il paradigma cambia completamente. Snyder non si limita a “rifare” Superman: lo interpreta. E lo fa portando sullo schermo una poetica che riconosci immediatamente: alienazione dell’individuo: iconografia religiosa e mitologica, solitudine del diverso in un mondo ostile, estetica visiva stratificata, quasi pittorica, con paesaggi simbolici e chiaroscuri morali.


Kal-El non è più un simbolo positivo da imitare: è una domanda esistenziale. Non “come posso essere buono”, ma “è possibile essere buoni?”. E soprattutto: “a quale prezzo?”. La scelta finale — l’uccisione di Zod — chiude un percorso morale coerente: un dio costretto ad assumere un limite umano. È qui che Snyder tenta la vera reinvenzione: non aggiorna l’icona, ma la problematizza.

Man of Steel è un film sulla frattura tra potere e responsabilità, tra destino e volontà.


3. James Gunn (2025) — Il mito pop-seriale

Infine, il Superman di Gunn. Dopo decenni di tentativi di differenziazione, la Warner abbandona la linea “realista-tragica” e cerca un nuovo equilibrio: più leggero, più corale, più vicino ai codici Marvel. Gunn è il profilo perfetto per questo scopo: ha un tono riconoscibile, una formula consolidata, una capacità di rendere “simpatici” anche personaggi improbabili.


E qui si vede la sua firma. Dialoghi rapidi, battute calibrate, un ritmo da action-comedy. Inclusione di un cast corale di personaggi secondari, spesso più gimmick che individui. Un Superman molto meno complesso, più accomodante, definito più dal tono del film che da una reale introspezione narrativa. Krypton ridotto quasi a pretesto politico, e un antagonista (Luthor) con motivazioni funzionali più che articolate.


È un film efficace nel suo target, ma profondamente diverso dalle due versioni precedenti. Non cerca il mito, non cerca la tragedia, non cerca la riflessione: cerca la sintonia con un pubblico abituato alla serialità pop. È un Superman che non costruisce un mondo — ne occupa uno già pronto.


4. Tre epoche, tre eroi

Donner costruisce il modello. Snyder lo decostruisce. Gunn lo standardizza. Tre visioni dello stesso personaggio che non raccontano solo Superman: raccontano come il cinema, la cultura pop e l’industria dell’intrattenimento si siano trasformati nel corso di mezzo secolo.



III. Eredità del mito vs mercificazione contemporanea

L’evoluzione cinematografica di Superman non è un fenomeno artistico isolato: è lo specchio del rapporto tra industria culturale e mito. Ogni versione del personaggio riflette non solo le scelte dei singoli registi, ma soprattutto le strategie di un sistema produttivo che, dagli anni Duemila in poi, ha trasformato il supereroe da figura narrativa a infrastruttura economica.


Il punto di svolta si colloca con una certa chiarezza dopo X-Men di Bryan Singer (2000). Quel film segnò non soltanto il ritorno del supereroe al cinema, ma l’inizio di una stagione in cui le major hanno individuato nel genere un vettore commerciale sicuro: serializzabile, transmediale, spendibile per oltre un decennio. Il successo della Marvel ha reso questo modello dominante, spingendo ogni studio a cercare la propria “formula” sostenibile.


In questo contesto, Superman smette progressivamente di essere un simbolo e diventa una piattaforma. La sua evoluzione moderna non procede più secondo logiche estetiche o tematiche, ma secondo logiche di mercato.


1. Il progetto Warner/DC pre-Gunn: una contro-narrazione possibile

Prima dell’arrivo di Gunn, la Warner — con tutte le sue incertezze produttive — stava tentando un percorso alternativo rispetto alla Marvel: toni più adulti, estetiche più rigide, personaggi progettati come entità tragiche o problematiche. Snyder, nel bene e nel male, aveva delineato un universo che stava in antitesi al modello Marvel: meno umorismo, meno leggerezza, più peso simbolico, più conflitti morali irrisolti. Era un progetto imperfetto, ma riconoscibile. Cercava di riportare i supereroi all’interno di un immaginario più vicino alla tragedia moderna che alla sitcom intergalattica.


2. La svolta Gunn: la standardizzazione pop

La scelta della Warner di affidare tutto il comparto DC a James Gunn rappresenta un cambio di paradigma. Non si tratta più di costruire un universo narrativo distinto, ma di adattare l’universo DC al linguaggio dominante dell’intrattenimento pop. Gunn è una firma perfettamente coerente con questa strategia: tonalità leggere, ensemble di personaggi, dialoghi serrati, humour integrato nella struttura, costruzione narrativa per “momenti”, forte continuità seriale. È un modello che ha dimostrato di funzionare al botteghino, ma che porta con sé un rischio evidente: se tutto aderisce allo stesso tono, allora tutto si somiglia.


E quando tutto si somiglia, si perde la funzione mitologica dei personaggi.


3. Il mito ridotto a brand

Superman, più di altri eroi, non nasce per essere simpatico o “relatable”: nasce per essere un archetipo morale. Ridurre un archetipo a uno stile o a una formula equivale a svuotarlo della sua funzione originaria. Quando il personaggio viene trattato come un “brand” da rilanciare più che come una figura simbolica da reinterpretare: il conflitto interiore si appiattisce, la sua etica appare artificiale, le motivazioni diventano accessorie, i personaggi di contorno si moltiplicano senza incidere, la trama viene riempita per garantire trailer, spin-off e continuità seriale.


Il risultato è un Superman sempre più lontano dal suo significato e sempre più vicino a un prodotto editoriale.


4. Leggerezza come sintomo, non come valore

La leggerezza non è un problema in sé. Lo diventa quando è una risposta industriale a un genere in crisi. Nel Superman di Gunn la leggerezza è una funzione — non una scelta narrativa:

serve a rendere il prodotto più fruibile, più esportabile, più facilmente declinabile in un universo condiviso. Ma questa leggerezza, priva di radici e di motivazioni interne al personaggio, rischia di indebolire proprio ciò che distingue Superman da qualsiasi altro supereroe. È un Superman che intrattiene più di quanto interpreti, che intrattiene più di quanto significhi. Un Superman trasformato da mito a format.



IV. I registi come interpreti culturali

Se la prima linea critica riguarda l’evoluzione del mito sotto la pressione dell’industria, la seconda riguarda un aspetto complementare: il ruolo dei registi come mediatori culturali. Ogni autore che ha messo mano a Superman non ha solo diretto un film: ha interpretato ciò che il personaggio rappresentava per il proprio tempo. Ed è qui che emergono differenze nette, quasi antitetiche, tra Donner, Snyder e Gunn.


1. Richard Donner — L’architetto del mito

Donner si comporta come un restauratore. Il suo approccio non è autoriale, ma culturale: prende un personaggio già noto e lo colloca con rigore nel pantheon dei miti popolari. Il regista non impone il proprio stile, ma costruisce una cornice in cui l’eroe possa apparire come “naturale”. Per questo il film del 1978 non è definito da una firma estetica dominante: è definito dal suo rispetto per la funzione originaria del personaggio. Superman, per Donner, è una figura morale intatta. Il suo compito non è problematizzarlo, ma presentarlo: limpido, coerente, riconoscibile.


Donner restituisce l’icona.


2. Zack Snyder — Il demolitore-ermeneuta

Snyder è l’esatto opposto: non accompagna il personaggio, lo interroga. Non lo mostra com’è sempre stato, ma lo chiede: cosa significa davvero Superman oggi? Il suo approccio è quello di un autore che lavora sui simboli più che sui dialoghi, sulla tensione etica più che sulla simpatia. La sua poetica è riconoscibile, certo — ma non è applicata in modo superficiale. Snyder adatta lo stile al contenuto: 300, Watchmen, Man of Steel sono tre film molto diversi proprio perché diversi sono i nucleo simbolici dei loro protagonisti. La sua non è “firma”, è interpretazione. Non uniforma il personaggio al proprio stile: lo trasforma nel punto di partenza di uno stile diverso. È un regista che tratta Superman come materia mitologica, non come proprietà intellettuale da rilanciare.


Per questo Man of Steel è un film radicale e divisivo: spezza il mito per ricostruirlo.


3. James Gunn — Il normalizzatore pop

Gunn rappresenta una terza via: quella della sovrapposizione autoriale. Non legge il personaggio per reinventarlo: lo fa rientrare nella propria formula. È un autore coerente, ma la sua coerenza diventa — suo malgrado — uniformazione. La sua struttura narrativa ricorre ovunque: gruppo corale, dinamiche spiritose, humor integrato, momenti di pathos calibrati, ritmo rapido, leggerezza emotiva. È lo stesso approccio di Guardiani della Galassia o The Suicide Squad. Funziona, ma appiattisce: produce personaggi che rispondono allo stesso tono prima ancora che alla loro identità. E questo diventa un limite grave quando si parla di un archetipo come Superman. Il risultato è un eroe che sembra più un ingranaggio dello stile di Gunn che una figura autonoma. Un Superman che sorride come un Guardiano, che interagisce come un Guardiano, che affronta minacce costruite come nei Guardiani. La sua identità è filtrata dal “Gunn-verse”.


Gunn non interpreta Superman. Lo include.


4. Tre approcci, tre conseguenze

Donner fissa il modello. Snyder lo mette in discussione. Gunn lo uniforma al mainstream. Tre approcci che rivelano tre modi diversi di rapportarsi al mito. E mostrano come la cultura pop, oggi, tenda a privilegiare il riconoscibile rispetto al significativo, la continuità rispetto all’identità, la firma del regista rispetto alla funzione del personaggio.



V. La debolezza del Superman di Gunn — Troppe cose, poca sostanza

Se si osserva Superman (2025) come prodotto d’intrattenimento, il film funziona: è dinamico, scorre bene, ha un tono pop immediatamente riconoscibile. Ma se lo si analizza come trasposizione di un mito fondativo, emergono limiti strutturali difficili da ignorare. Limiti che non dipendono solo dalle scelte estetiche, ma soprattutto dalla natura del progetto.


1. Una trama essenziale, ma non essenziale al personaggio

La storia è minimale — e fin qui nulla di male. Il problema è che la sua semplicità non deriva da un intento di “ritorno alle origini”, ma da un’impostazione narrativa che sacrifica la complessità in funzione del ritmo. La sceneggiatura appare costruita per accumulazione: più personaggi, più minacce, più situazioni. Non per progressione drammatica. La differenza è sostanziale: in Snyder ogni elemento serve a definire il dilemma morale del protagonista; in Gunn gli elementi servono a riempire lo spazio narrativo e a predisporre futuri spin-off.


2. Personaggi secondari come funzione, non come relazione

Nel film si susseguono figure che, sulla carta, avrebbero peso: eroi di altre squadre, alieni, comprimari, membri potenziali della Justice League. Ma nessuno di questi personaggi lascia un impatto emotivo o narrativo. Non perché siano scritti male, ma perché sono funzioni: servono a suggerire un universo più grande, servono a creare continuità, servono a introdurre future linee narrative. Quasi nessuno serve a definire Superman. Il risultato è un Clark che interagisce molto, ma si relaziona poco.


3. Un antagonista senza motivazione all’altezza

Lex Luthor è uno degli antagonisti più iconici della cultura pop. Nel film di Gunn appare ridotto a una motivazione accessoria, quasi pretestuosa. Più che un avversario ideologico, più che una forza contraria, è il motore meccanico di un piano che deve semplicemente accadere. Questo indebolisce non solo Lex, ma soprattutto Superman: un eroe si definisce anche attraverso ciò che si oppone a lui. Senza un antagonista solido, Superman appare meno necessario.


4. Un “buonismo” privo di fondazione narrativa

La bontà innata di Superman è un tratto complesso: non è ingenuità, è responsabilità morale. Per funzionare, va motivata, costruita, radicata nella storia. Nel film di Gunn, invece, l’etica del personaggio sembra un dato di partenza non elaborato. Un tratto caratteriale più che una conseguenza del percorso di Kal-El. Il punto non è che Superman sia buono. È che non si capisce perché lo sia così, in questo modo, in questo contesto. I Kent — cardine emotivo del personaggio — sono qui figure marginali, poco esplorate, quasi periferiche. Questo priva Superman della sua base simbolica: l’origine etica.


5. Un eccesso visivo che non costruisce significato

L’inserimento di creature aliene, intermezzi comici, squadre parallele, e perfino il cane Kripto contribuisce a creare un universo ampio, sì, ma frammentato e disomogeneo. È una postmodernità di seconda mano, non innovativa: un collage di elementi provenienti da altri franchise, giustapposti più che integrati. E soprattutto non incrementano l’identità del personaggio. La disperdono.


6. Il finale catastrofico come déjà-vu

L’accusa mossa a Man of Steel nel 2013 — “troppa distruzione” — è stata uno dei cavalli di battaglia di una certa critica. Eppure, il film di Gunn propone una distruzione di pari scala, con una città lacerata da uno strappo spazio-temporale che visivamente ricorda un terremoto cosmico. La differenza? In Snyder la distruzione è il dilemma morale del film. In Gunn è un set piece spettacolare all’interno di una trama che non si interroga sulle conseguenze. Ancora una volta: forma prima della funzione.


7. Empatia bassa, identità diluita

Il risultato è un Superman che: appare gentile ma poco motivato, agisce molto ma cresce poco, vive in un universo ricco ma non integrato, è riconoscibile come “personaggio di James Gunn” prima ancora che come Superman. È un eroe che funziona nella dinamica pop, ma risulta debole nella dimensione mitologica che da decenni definisce il personaggio.



VI. Box office — Il mito non risorge col botteghino

Uno degli argomenti più ricorrenti quando si parla del Superman di James Gunn è il suo incasso: “Ha fatto soldi, quindi funziona”. È una semplificazione comoda, ma anche profondamente ingannevole. Soprattutto quando si parla di un personaggio come Superman, che non vive di numeri ma di significati.


Il film di Gunn ha portato a casa circa 616,6 milioni di dollari worldwide, un risultato solido, che nel panorama attuale dei cinecomics può essere considerato persino confortante. Il paragone immediato è con Man of Steel (2013), che all’epoca arrivò a 670,1 milioni. Già così, a valori nominali, il film di Snyder resta davanti.


Ma il punto vero emerge quando si considera l’inflazione e l’aumento del prezzo dei biglietti. Man of Steel oggi equivarrebbe a circa 835–880 milioni di dollari. E questo significa una cosa molto semplice: Superman di Gunn non supera Snyder; ne resta parecchio distante. Tra i 220 e i 260 milioni di distanza, per essere precisi.


L’unico ambito in cui Gunn “vince” è quello domestico: 354 milioni negli USA contro i 291 milioni di Snyder. È un dato interessante, ma anche qui non può essere preso come prova di una vittoria complessiva. Se un personaggio universalmente noto come Superman ottiene il suo miglior risultato solo nel mercato interno, vuol dire che la strategia comunicativa e narrativa non sta funzionando altrettanto bene fuori dagli Stati Uniti.


In altre parole: non è il segno di un rilancio globale, ma di un prodotto calibrato su un pubblico molto specifico. E qui arriviamo al nodo centrale. Il box office misura quante persone hanno comprato un biglietto, non la qualità del racconto. Non misura l’impatto culturale, non misura la coerenza simbolica, non misura la tenuta mitologica. Misura solo l’efficacia commerciale della formula scelta.


E la formula scelta da Gunn — più leggera, più pop, più vicina ai codici Marvel — si rivela efficace sul piano industriale, ma debole su quello identitario. Funziona per portare gente al cinema, ma non per restituire profondità a un personaggio che, per definizione, dovrebbe essere più grande della somma delle sue gag e dei suoi comprimari.


In questo senso i numeri diventano rivelatori: non ci dicono che Superman è tornato in forma, ma che la strategia DC si sta spostando verso una normalizzazione del personaggio, allineandolo alla tendenza dominante del mercato.


Come spesso accade, il successo economico non coincide con una rinascita culturale: il film di Gunn incassa, ma non rigenera il mito.


(Stima calcolata sulla base dell’aumento del prezzo medio dei biglietti tra 2013 e 2025, secondo i dati di The Numbers e Box Office Mojo: +40% USA, +35–40% Cina, +30–35% Europa. Applicando questi incrementi ai 670,1 milioni di incasso originale, il valore equivalente odierno di Man of Steel risulta tra 835 e 880 milioni di dollari.)



VII. In conclusione

Arrivati a questo punto, è chiaro che il problema non è semplicemente il film di Gunn. Il problema è ciò che il film rappresenta: una svolta strategica che la Warner ha compiuto in modo improvviso, archiviando di colpo un’intera linea narrativa — quella più realista, drammatica e mitopoietica — su cui aveva investito per anni. Una linea che, al netto delle sue contraddizioni, aveva almeno un’identità riconoscibile.


Con Gunn, la casa di produzione ha scelto di riposizionare l’universo DC verso un registro camp e pop, più vicino alla formula Marvel che a quello che la DC stava tentando di costruire. Non si tratta di una scelta stilistica neutrale: è un cambio di paradigma. L’appiattimento del personaggio deriva proprio da questo ribaltamento di rotta, dalla rinuncia — quasi ideologica — a un approccio più complesso, più adulto, più legato all’interpretazione simbolica del mito.


E paradossalmente, guardando al passato, questa deriva camp obbliga a riesaminare opere che all’epoca furono criticate senza pietà. Batman & Robin di Joel Schumacher (1997), ad esempio: un film massacrato perché considerato troppo giocoso, troppo colorato, troppo “fumettoso”. Con gli occhi di oggi, quel film appare come un precursore inconsapevole del futuro: un tentativo di rileggere il supereroe attraverso l’estetica del kitsch e dell’eccesso, molto prima che il tono camp diventasse la cifra dominante di gran parte dell’intrattenimento supereroistico contemporaneo.


Il film di Schumacher, inserito in questo contesto, risulta persino più onesto: abbracciava apertamente la sua natura pop, senza mascherarla da profondità morale o da dramma. Molti prodotti attuali, invece, inseguono un tono leggero senza averne né la consapevolezza né la coerenza, generando ibridi che funzionano a livello industriale ma svuotano i personaggi della loro funzione simbolica.


Ed è proprio questo il punto: il titolo Superman è morto. Abbasso Superman non riguarda Kal-El, ma il modo in cui oggi lo raccontiamo. Il personaggio, l’archetipo, il mito non sono in crisi: è il sistema narrativo ad esserlo, incapace di sostenere figure nate per essere simboli e non semplici elementi di un franchise.


L’appiattimento non è colpa di un singolo film o di un singolo regista. È la conseguenza della scelta di abbandonare la complessità in favore della compatibilità, l’interrogazione morale in favore della formula, il mito in favore della serialità. Ma i miti non scompaiono: si eclissano. Riemergono quando trovano un interprete all’altezza, non quando vengono inseriti a forza in un modello produttivo dominante.


E allora sì, possiamo dirlo senza ironia: il Superman del 2025 è morto. Viva il Superman che verrà. Perché i miti non muoiono. Al massimo si assopiscono, in attesa di un interprete capace di riportarli al loro peso originario.

 
 
 

Commenti


© 2025 by Nicola Vazzoler. Powered and secured by Wix
bottom of page