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I miei commenti e recensioni - Slittamento fra verità e opinione nella post-postmodernità o digimodernismo

  • Immagine del redattore: Nicola Vazzoler
    Nicola Vazzoler
  • 12 ott
  • Tempo di lettura: 6 min

1. Il reale come simulazione

Negli ultimi mesi si sono diffusi in rete video e immagini così realistici da confondere anche gli osservatori più attenti. False interviste, rivolte distruttive mai avvenute, volti di persone inesistenti ma perfettamente credibili: tutto generato dall’intelligenza artificiale, tutto condiviso all’impazzata, tutto accolto come reale. La distinzione tra il fatto e la sua replica è ormai indecifrabile. Viviamo immersi in un flusso di rappresentazioni che non riproducono più la realtà, ma la sostituiscono. Non sappiamo più in quale piano stiamo abitando: quello dei fatti o quello delle loro versioni.


In un’epoca in cui anche l’intelligenza artificiale genera contenuti “credibili”, la differenza tra autentico e sintetico non è più ontologica (cioè legata all’essenza delle cose, al loro essere) ma etica (cioè legata alla responsabilità e alle scelte umane). La verità, un tempo fondamento del sapere moderno, si è ridotta a un atto di fede personale. Non è più ciò che è, ma ciò che crediamo che sia. È qui che prende forma il paradosso della nostra epoca: lo slittamento fra verità e opinione.


2. La verità come fatto — L’ordine moderno

Nella modernità, la verità era considerata il risultato di un rapporto diretto tra l’affermazione e la realtà. Un enunciato era vero se poteva essere verificato, argomentato e riconosciuto da istituzioni autorevoli. La scienza, il giornalismo, il diritto e l’università fungevano da garanti di questo patto epistemico (cioè relativo ai modi con cui si produce e si legittima la conoscenza).


La verità era dunque un fatto pubblico, verificabile, condiviso: una struttura gerarchica che andava dal reale alla conoscenza, e dalla conoscenza alla società. La fiducia in questo sistema era totale. La modernità vedeva nel progresso tecnico e nella ragione i suoi strumenti di legittimazione: conoscere significava avvicinarsi alla verità, e la verità coincideva con il progresso dell’umanità.


Era un orizzonte comune, un linguaggio universale, un fondamento collettivo su cui poggiavano la scienza, la politica e la morale.


3. La frattura postmoderna — La verità come costruzione

Nel secondo Novecento, questa fiducia si incrina. Il pensiero postmoderno smonta l’idea che la verità sia qualcosa di unico, stabile e neutrale. Jean-François Lyotard parla della fine delle grandi narrazioni che avevano sostenuto la modernità (La condition postmoderne, 1979). Michel Foucault mostra che ogni verità è il prodotto di un potere e di un discorso (Surveiller et punir, 1975; L’ordre du discours, 1971). Jean Baudrillard spinge oltre, sostenendo che la realtà è sostituita dai suoi simulacri — immagini che non rappresentano più il mondo, ma lo precedono e lo consumano (Simulacres et Simulation, 1981).


Scrivevo in Forme di città (2023): “Il postmoderno rinnega le verità assolute e propone eterogenee prospettive. Le discipline scientifiche, frammentate al loro interno, perdono la supposta unità […] La condizione postmoderna è quindi l’accettazione di uno stato d’impotenza.” La verità non è più una scoperta ma una costruzione, non più un fondamento ma un linguaggio tra gli altri. Eppure, anche nella sua frammentazione, il postmoderno conserva una consapevolezza: la differenza tra verità e opinione rimane riconoscibile, anche se relativa. Si relativizza la verità, ma non la si confonde con la pura credenza.


L’individuo vive in un orizzonte plurale, ma percepisce ancora il confine tra il reale e le sue rappresentazioni.


4. Il collasso digimoderno — La verità come opinione

Con l’avvento dei social network e della cultura digitale, quel confine si dissolve. Alan Kirby ha definito questa condizione digimodernismo (Digimodernism. How New Technologies Dismantle the Postmodern and Reconfigure Our Culture, 2009): una fase in cui le tecnologie digitali non si limitano a diffondere informazioni, ma ridefiniscono la struttura stessa della conoscenza.

I testi diventano aperti, modificabili, commentabili, partecipativi. Autori e lettori, emittenti e destinatari, scambiano continuamente i ruoli. Ogni discorso può essere riscritto da chiunque, e questa fluidità, apparentemente democratica, finisce per dissolvere i criteri di validità e competenza.


Nel mondo digitale, l’opinione assume la stessa forma di una notizia. I social media premiano ciò che genera reazione, non ciò che dimostra. La verità diventa una questione di diffusione: ciò che si propaga, vince. La sua misura non è più la coerenza logica o la prova empirica, ma l’attenzione che riceve.


La velocità della circolazione è più forte della lentezza della verifica, e l’autorevolezza si riduce a una metrica: visualizzazioni, condivisioni, like e commenti. In Forme di città avevo scritto che “la presenza continua del disordine può sostenere meccanismi che fondano il loro funzionamento proprio sull’alimentazione della paura e sulla relativa richiesta di sicurezza”. Oggi la stessa logica si applica all’informazione: il caos produce attenzione, e l’attenzione genera potere.


Viviamo in un sistema in cui la verità perde la propria aura istituzionale e si trasforma in opinione amplificata, mentre l’opinione, diffusa e condivisa, acquisisce lo statuto di verità percepita. La discussione pubblica non tende più al consenso, ma all’escalation emotiva. I media digitali non generano spazi deliberativi, ma ambienti affettivi. Il valore epistemico (cioè relativo alla conoscenza e ai criteri con cui distinguiamo il vero dal falso) lascia spazio a un valore identitario: non crediamo più a qualcosa perché è vero, ma perché ci rappresenta.


La verità non unisce, ma separa in tribù cognitive che difendono le proprie versioni del mondo come se fossero dogmi.


5. Il paradosso cognitivo — Micromondi e bolle di senso

Giuseppe De Carolis ha descritto con precisione questa condizione attraverso la figura del “paradosso antropologico” (La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 2008): l’essere umano, immerso in un ambiente percepito come caotico, tende a costruirsi nicchie di protezione, spazi limitati e rassicuranti dove ridurre la complessità del mondo. Scrivevo anch’io: “È possibile che un essere umano immerso in un ambiente ostile possa cercare riparo in una nicchia, fisica o simbolica, anche all’interno della propria mente.” (Forme di città, 2023)


Oggi quelle nicchie sono diventate bolle digitali, vere e proprie camere dell’eco dove il pensiero trova conferma e non contraddizione. La rete, che avrebbe dovuto connettere, ha finito per separare: ogni individuo abita un proprio micromondo cognitivo, impermeabile agli altri. Ciò che un tempo era un rifugio psichico è diventato una struttura sociale.


Ogni bolla produce le proprie verità, le proprie prove, le proprie mappe. La realtà, invece di essere un terreno comune, si frammenta in una costellazione di versioni parallele. Questo meccanismo genera un paradosso profondo: più la società si connette, più si isola. La pluralità non è più dialogo, ma moltiplicazione di monadi che si ignorano.


La complessità del mondo non è condivisa, ma moltiplicata in infiniti specchi che restituiscono soltanto la propria immagine.


6. La dissoluzione dei significati — Oltre la verità

La crisi della verità trascina con sé la crisi del linguaggio. Le parole non coincidono più con le cose: termini come “libertà”, “identità”, “giustizia” o “democrazia” cambiano significato a seconda della comunità che li pronuncia. Questa frammentazione non riguarda solo la sfera del discorso, ma anche quella delle istituzioni. Come osservava Crosta (Pratiche urbane e politiche pubbliche, 2000), la società contemporanea tende a sostituire la mediazione pubblica con l’autoanalisi: individua da sé i propri bisogni, le proprie domande, le proprie verità. Lo Stato, e con esso le altre istituzioni epistemiche, perde il ruolo di interprete collettivo. La conoscenza non è più prodotta da centri autorevoli, ma da reti diffusive di senso, dove l’autoreferenzialità prende il posto della rappresentanza.


Il linguaggio, che dovrebbe unire, diventa un campo di battaglia simbolico. In Forme di città osservavo che “una realtà non più certa, una realtà non più leggibile, può innescare meccanismi di difesa che, in un contesto come quello contemporaneo, paiono accentuati”. Oggi quella realtà illeggibile non è solo un dato culturale: è un ambiente. Viviamo in una sovrapposizione costante di rappresentazioni, dove la parola vera è quella che circola di più, non quella che spiega meglio. La verità è stata sostituita dalla visibilità. Hannah Arendt aveva previsto questo esito (Truth and Politics, 1967): “Il risultato di una coerente e totale menzogna non è che le persone credano alle menzogne, ma che nessuno creda più a nulla.”


Nella post-postmodernità, la verità non scompare, ma si riduce a sentimento: un riflesso affettivo, una convinzione solitaria. La modernità cercava la verità per fondare la società. La postmodernità la relativizzava per liberarla. La post-postmodernità la dissolve, trasformandola in una forma di appartenenza.


Viviamo in un mondo dove la domanda “cos’è vero?” è stata sostituita da un’altra, più sfuggente e inquieta: “in quale realtà preferisci vivere?”.


7. Dopo la verità

La verità, ridotta a opinione, non scompare del tutto: continua ad agire come bisogno, come nostalgia di un ordine perduto. Ma la sua natura è mutata. Non è più un fondamento condiviso, bensì una scelta identitaria.


In questo scenario, ciò che chiamiamo “vero” non coincide più con ciò che esiste, ma con ciò che scegliamo di credere. E se anche l’autenticità non è più un dato ma un valore, allora la differenza tra il reale e la sua copia, tra l’autentico e il sintetico, non è più ontologica ma etica. Forse è qui che si gioca il destino della verità nella post-postmodernità: comprendere fino a che punto lo slittamento fra verità e opinione abbia cambiato non solo il nostro modo di conoscere, ma il nostro modo di credere.

 
 
 

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