I miei commenti e recensioni - Ballard e oltre: l’architettura come psicologia
- Nicola Vazzoler
- 3 nov
- Tempo di lettura: 6 min
Nei romanzi di J.G. Ballard la follia non nasce dall’uomo, ma dagli spazi che abita. L’architettura non è sfondo, ma detonatore: grattacieli, autostrade e comunità recintate: le architetture del benessere diventano teatri di regressione collettiva. Ogni edificio perfetto contiene una crepa, ogni piano regolatore un principio di collasso.
Ballard rovescia l’utopia modernista: mostra che la razionalità, spinta al limite, genera mostri. L’ordine si trasforma in claustrofobia, la progettazione in esperimento sociale. Le sue città verticali e i suoi non-luoghi sono anatomie della mente contemporanea: strutture progettate per contenere la vita che finiscono per soffocarla.
Rileggerlo oggi significa riconoscere la nostra stessa condizione. Viviamo in ambienti intelligenti, sorvegliati, automatizzati, ma la promessa di comfort produce un nuovo tipo di inquietudine. Queste recensioni non riguardano soltanto Ballard, ma il modo in cui i suoi spazi continuano a parlarci attraverso il presente.
Da questa eredità nasce anche Kalsarikännit: un racconto in cui la follia non esplode in un grattacielo o in una rotatoria, ma dentro una casa qualunque. È lo stesso meccanismo ballardiano, ridotto all’essenziale. Non serve più un incidente o un’utopia tecnologica per scatenare la deriva: basta un salotto, una libreria che cede, un giorno di pausa che smette di essere tregua e diventa vertigine.
Il condominio – la follia scelta
Nel romanzo High-Rise (1975), Ballard ambienta la sua discesa nella barbarie all’interno di un grattacielo di lusso alle porte di Londra, una città verticale autosufficiente con negozi, scuole, piscine e palestre. L’edificio è progettato per sostituire il mondo esterno, per contenere ogni aspetto della vita moderna: il lavoro, il tempo libero, la socialità. Ma più il sistema è perfetto, più diventa fragile. L’autosufficienza si rovescia in isolamento, la sicurezza in claustrofobia.
Gli abitanti del grattacielo scelgono di viverci. Non sono prigionieri né superstiti, ma volontari dell’utopia tecnologica. Professionisti, medici, architetti, registi: ciascuno ha comprato il proprio spazio di privilegio, convinto che il comfort architettonico basti a garantire l’ordine sociale. Invece, la verticalità riproduce la gerarchia: i piani bassi appartengono alla classe media, quelli alti all’élite. E quando cominciano i primi guasti – un blackout, un ascensore bloccato, l’acqua che smette di scorrere – la tensione si libera come un istinto represso.
La civiltà arretra di qualche millennio. I condomini formano clan, si appropriano dei corridoi, difendono i pianerottoli come territori. Il grattacielo si trasforma in un ecosistema chiuso dove le regole della convivenza cedono a rituali di possesso e violenza. Le feste si mutano in scontri, gli animali domestici diventano prede, e l’odore del sangue si mescola a quello dell’acciaio e del disinfettante.
Ballard descrive questa regressione senza moralismo, come se l’ordine civile fosse soltanto una fragile patina. Il blackout elettrico diventa un blackout mentale: la luce della ragione si spegne, lasciando emergere un inconscio collettivo che coincide con la struttura stessa dell’edificio. L’architettura non riflette la psiche, la sostituisce: ogni tubo, ogni ascensore, ogni parete diventa un prolungamento dei desideri e delle ossessioni dei suoi abitanti.
La lezione è crudele ma limpida: la civiltà non viene distrutta da forze esterne, ma implode per saturazione interna. Chi sceglie di abitare il grattacielo non cerca una casa, ma un’illusione di controllo — e proprio quella illusione lo condanna. Nel cuore dell’utopia architettonica, l’uomo scopre che la sua natura più profonda non è razionale ma impulsiva, non ordinata ma istintiva.
L’isola di cemento – la follia subita
Se High-Rise racconta la discesa volontaria nell’abisso, Concrete Island (1974) mette in scena la follia come destino imposto. Robert Maitland, architetto e uomo di successo, perde il controllo della sua Jaguar e precipita su un triangolo di cemento intrappolato tra tre autostrade. È a pochi metri dal mondo civile, ma completamente invisibile. Le macchine sfrecciano sopra di lui, nessuno si ferma. Ballard capovolge il mito del naufrago: l’isola non è tropicale, ma urbana; non è lontana, ma centrale; non è naturale, ma costruita dall’uomo stesso.
Qui il protagonista non sceglie di restare. È ferito, disorientato, eppure progressivamente attratto da quel luogo residuale. L’istinto di sopravvivenza lo spinge a esplorare l’isola, a cercare cibo, rifugio, strumenti. Ma la lotta contro il cemento diventa presto una lotta interiore: il paesaggio esterno si confonde con quello mentale. Le regole della vita ordinaria si dissolvono, e Maitland comincia a riconoscersi nel territorio che lo ha intrappolato.
Ballard costruisce un doppio piano narrativo: da un lato l’isola come non-luogo urbano, scarto della pianificazione moderna, simbolo della società che espelle ciò che non serve; dall’altro, l’isola come spazio psichico, rifugio e prigione insieme. L’incidente che lo separa dal mondo è anche una frattura identitaria. A poco a poco, l’architetto borghese smette di pensare alla fuga e comincia a sentire che quel frammento di terreno appartiene solo a lui. L’isolamento diventa una forma di libertà, la sporcizia un ritorno all’origine.
L’incontro con Jane Shepherd e Proctor – due figure marginali, relitti sociali come l’isola stessa – accentua la sensazione di un microcosmo autarchico, privo di morale e di scopo. Non c’è redenzione né speranza di salvataggio: c’è soltanto l’adattamento. L’isola di cemento è il laboratorio della regressione: Ballard mostra che basta un piccolo incidente per scoperchiare la superficie della civiltà e rivelare quanto poco basti all’uomo per tornare primitivo.
L’autostrada, simbolo della modernità in movimento, diventa un muro invalicabile; il cemento, materia del progresso, si fa carne, paesaggio mentale, spazio dell’oblio. In questo romanzo, la città stessa divora i suoi abitanti, e l’unica via di fuga è accettare la propria prigionia.
Kalsarikännit – la follia data per scontata
In Kalsarikännit (racconto raccolto in Tutte le favole per bambini cresciuti) il teatro del collasso non è un grattacielo né un’isola di cemento, ma una casa qualunque. Giovanni non sceglie di abitarla né vi è costretto: ci vive, semplicemente. È lo spazio che tutti abitiamo, quello dato per scontato, che sembra immobile e neutro finché non comincia a deformarsi.
Qui la regressione non passa attraverso la collettività o l’incidente, ma attraverso la routine: il giorno di ferie, il pigiama, la colazione lenta, la promessa di riposo. Tutto ciò che dovrebbe placare l’ansia la amplifica. L’intimità domestica, anziché rifugio, diventa un laboratorio di dissoluzione.
Lo stile è diverso da quello di Ballard, più intimo e allucinatorio: il linguaggio scivola dal realismo al delirio, come se la casa si rivelasse poco a poco un’estensione della mente di chi la abita. Gli oggetti prendono parola, i libri riscrivono il loro lettore, la materia stessa — il busto, il water, il cane-palloncino — si anima e restituisce un linguaggio frammentato, poetico e incomprensibile. La realtà si comporta come una superficie che rimanda ogni gesto a chi l’ha compiuto, finché il protagonista non è più in grado di distinguere il dentro dal fuori, la memoria dalla visione.
Se High-Rise rappresentava la follia scelta e Concrete Island la follia subita, Kalsarikännit racconta la follia data per scontata: quella che nasce dal vivere troppo a lungo negli stessi spazi, tra gli stessi oggetti, fino a perderne il significato. Giovanni non precipita in un paesaggio distopico, ma nell’eccesso di realtà del suo appartamento. La sua giornata di libertà si trasforma in un esperimento mentale dove la casa divora chi la abita, come se l’architettura avesse assorbito le sue stanchezze, i suoi desideri, la sua inerzia.
Nel mio racconto, la regressione ballardiana trova un’eco più domestica, quasi psicotica: non ci sono tribù, né sopravvivenza, né ribellione. Solo un uomo qualunque che cerca di staccare e si ritrova prigioniero del suo stesso bisogno di quiete. L’abisso, stavolta, non è sotto la città o tra le autostrade, ma dietro la porta di casa.
Lo spazio come specchio
Dalla torre di High-Rise all’isolotto sotto le autostrade fino al salotto di Kalsarikännit, il paesaggio ballardiano si restringe progressivamente, come se il collasso della civiltà dovesse avvicinarsi sempre di più all’interno dell’uomo. L’architettura non è solo cornice, ma meccanismo psichico: i muri, i corridoi, le strade sopraelevate e perfino i mobili diventano membrane sensibili, superfici di contatto tra coscienza e mondo.
Ballard ci ha mostrato che la modernità non si misura più nella conquista dello spazio esterno, ma nella perdita di quello interiore. La sua eredità non è una lezione di distopia, ma una diagnosi: più cerchiamo di organizzare, isolare, controllare i nostri ambienti, più essi ci restituiscono l’immagine della nostra fragilità.
Kalsarikännit nasce come eco di questa intuizione, ma la porta su un terreno diverso, più intimo e quotidiano. Laddove Ballard costruisce architetture che implodono su scala collettiva, qui l’implosione è privata, domestica, quasi impercettibile. Non esplodono i grattacieli, ma la quiete. Il protagonista non si ribella né sopravvive: si dissolve nella normalità, nell’eccesso di realtà che abita.
Forse è questo il punto di contatto più profondo: in fondo, ogni spazio finisce per riflettere chi lo abita. Che sia una torre di vetro, un frammento di cemento o una stanza in disordine, l’architettura resta una forma di specchio. E, come tutti gli specchi, può restituirci qualcosa che non vogliamo vedere.




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