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I miei commenti e recensioni - L’intervallo del cambiamento. Paura, conoscenza e transizione nell’era dell’intelligenza artificiale

  • Immagine del redattore: Nicola Vazzoler
    Nicola Vazzoler
  • 1 giorno fa
  • Tempo di lettura: 20 min

Questo commento nasce da un dato semplice ma rivelatore: secondo un’indagine del Pew Research Center pubblicata su Wired nel 2025, l’Italia è tra i paesi che più temono l’intelligenza artificiale, pur essendo tra i più informati sul suo sviluppo. È un paradosso solo apparente. La conoscenza, oggi, non riduce la paura: la intensifica. Più comprendiamo la portata del cambiamento, più percepiamo la fragilità delle nostre categorie.


Da questa constatazione prende forma una riflessione più ampia sul tempo delle transizioni — sulle fasi intermedie in cui una civiltà smette di essere ciò che era, senza ancora sapere cosa sta diventando. Dalla rivoluzione industriale all’automazione, dal digitale all’intelligenza artificiale, la storia appare non come una sequenza di rotture ma come un fluire di continuità e discontinuità.

Come scriveva Bernardo Secchi, periodizzare non significa delimitare il tempo, ma cercarne il senso.

E come ricordava Walter Benjamin, ogni istante contiene una costellazione di passato e futuro: un punto in cui la storia può ancora cambiare direzione.


L’intervallo del cambiamento si colloca in questa prospettiva: non come analisi tecnica dell’intelligenza artificiale, ma come meditazione sul tempo storico e sulle sue metamorfosi. È il tentativo di abitare lo spazio sospeso tra paura e conoscenza, tra memoria e mutazione, leggendo la tecnologia come un riflesso dell’uomo e non come la sua alternativa. Il commento prosegue idealmente le riflessioni avviate in Forme di città (2023), dove lo spazio urbano era inteso come espressione sensibile della trasformazione sociale. Qui l’attenzione si sposta sul tempo: sul modo in cui le rivoluzioni tecnologiche (passate e presenti) ridisegnano la percezione dell’esistenza e della storia.


Non una delle mie recensioni ma un commento che è esercizio di attenzione sul presente: il tempo intermedio in cui l’uomo, davanti alla propria creazione, impara di nuovo a riconoscersi.



L’epoca della consapevolezza inquieta

“[...] Secondo un ampio studio internazionale condotto dal Pew Research Center nella primavera 2025, che ha incluso 25 paesi e 28.000 persone, la percezione dell’intelligenza artificiale nel mondo è dominata più dalla cautela che dall’entusiasmo […]” (Laura Carrer, Wired, 25.10.2025)


Viviamo in un tempo in cui la consapevolezza non rassicura più. Più sappiamo, più abbiamo paura. Non si tratta di ignoranza o resistenza al progresso, ma di una nuova forma di inquietudine informata che attraversa le società contemporanee. Il sondaggio citato da Wired lo mostra con chiarezza: l’Italia è tra i paesi che più temono l’intelligenza artificiale, e allo stesso tempo tra quelli che la conoscono meglio. È un paradosso apparente, ma in realtà rivela un tratto tipico delle fasi di transizione: la conoscenza aumenta la percezione del rischio, non la riduce.


Essere consapevoli dell’IA significa comprendere che essa non è solo una tecnologia, ma una forza di ristrutturazione del mondo: economica, culturale, simbolica. Non stiamo più discutendo di strumenti, ma di sistemi cognitivi che apprendono, predicono, scrivono, decidono. Eppure la paura non nasce tanto dal futuro, quanto dal presente: dal sentirsi dentro un processo che non controlliamo, ma che già ci controlla.


Forse l’elemento più interessante del dato del Pew Research Center è proprio questo: la paura non è inversamente proporzionale alla conoscenza, come accadeva in passato con l’analfabetismo tecnologico, ma direttamente proporzionale. Chi sa di più, teme di più. Come se il sapere avesse perso il suo potere emancipatore, trasformandosi in un’anticamera dell’ansia.


In Italia, questa inquietudine assume un carattere particolare. È la paura di un Paese che conosce il valore del lavoro manuale, della tradizione artigiana, della relazione diretta, e che si ritrova ora di fronte a un salto cognitivo senza precedenti: un’epoca in cui le macchine non solo agiscono, ma pensano. La cultura italiana — umanistica, concreta, interpersonale — percepisce istintivamente la minaccia non come tecnica, ma identitaria: che ne sarà del giudizio umano, del gusto, dell’intuizione, dell’errore creativo, quando l’algoritmo saprà riprodurli tutti, e forse superarli?


È la stessa sensazione che attraversò l’Europa nel pieno della rivoluzione industriale: la paura di vedere sostituito il proprio gesto, la propria competenza, il proprio posto nel mondo. Ma con una differenza sostanziale: oggi la trasformazione non tocca solo il corpo, bensì la mente. Non ci sostituisce nel lavoro manuale, ma nel pensiero, nella scrittura, nella memoria. È come se l’umanità avesse creato, per la prima volta, una replica di sé stessa — e ne fosse al tempo stesso orgogliosa e terrorizzata.


Forse è proprio questa la cifra dell’epoca attuale: un tempo che non è ancora del tutto nuovo, ma che ha già superato il vecchio. Viviamo dentro un intervallo di coscienza, in cui sappiamo abbastanza da intuire la portata del cambiamento, ma non ancora abbastanza da governarlo. L’informazione si moltiplica, le interfacce si umanizzano, i confini tra naturale e artificiale si dissolvono.


Come ricordavo in Forme di città, citando Andrea Branzi, la modernizzazione ha compromesso irreparabilmente la nostra percezione dello spazio e del tempo: le nuove forme di produzione introdussero nuove forme del vivere, il tempo libero venne serializzato e lo spazio cominciò a dilatare i propri confini, a liberarsi da ogni sorta d’impedimento. “[...] I confini, i limiti appartengono alla storia e alla geografia”, scrive Branzi, “ma non appartengono più alla nostra cultura, agli spazi virtuali e ai tempi reali della cultura web [...]” (Branzi, Modernità debole e diffusa, 2006, p. 88).


Oggi, questa perdita di confini si è spostata sul piano cognitivo: non riguarda più solo il mondo fisico, ma il modo stesso in cui pensiamo il pensiero. L’intelligenza artificiale rappresenta, in fondo, una nuova forma di compressione spazio-temporale della mente: la distanza tra azione e riflessione si riduce, il tempo della decisione collassa, e il soggetto si scopre dislocato, simultaneo, ovunque e in nessun luogo.


In questo spazio sospeso, l’essere umano sperimenta un sentimento antico in una forma nuova: la paura di perdere il controllo della propria creazione. La cautela, allora, non è solo un riflesso conservatore: è una forma di lucidità. È il segno che, dopo secoli di fede cieca nel progresso, stiamo finalmente comprendendo che ogni innovazione porta con sé una mutazione antropologica. Non si tratta di rifiutare la macchina, ma di riconoscere che la macchina, ormai, ci osserva mentre la osserviamo. E che forse, per la prima volta, il futuro non è qualcosa che ci attende — ma qualcosa che ci studia.



Le rivoluzioni che non cominciano mai da zero

“[...] Separare il fluire della storia in periodi, dire quando ciascuno inizi e come quando termina e perché, raccontandone i caratteri principali, è un modo di pensare il tempo, di ricostruirlo cercando il senso del suo fluire [...]” (Bernardo Secchi, La città del ventesimo secolo, 2005, p. 3)


Le epoche non nascono mai da un giorno all’altro. Non c’è una data precisa in cui la storia “inizia”, ma solo una progressiva ricomposizione di forze che, per accumulo o saturazione, trasformano il mondo fino a renderlo irriconoscibile a chi lo abitava prima. Secchi lo ricorda con limpidezza: periodizzare significa costruire una narrazione del tempo, non descrivere un fatto. Le rivoluzioni, più che punti di rottura, sono modi per orientarsi dentro il disordine.


L’uomo, incapace di percepire la continuità pura, ha bisogno di istanti di discontinuità simbolica per potersi raccontare. Le chiamiamo “rivoluzioni”, ma nella realtà storica sono transizioni lente, processi di maturazione e di decomposizione, in cui il nuovo nasce dentro il corpo del vecchio.

Il tempo, in questo senso, non è una linea ma una sostanza viscosa, un fluido in cui coesistono residui e anticipazioni.


Walter Benjamin, nelle Tesi di filosofia della storia (1940), osserva che il passato non è una sequenza chiusa di eventi, ma un insieme di “costellazioni” che possono improvvisamente illuminarsi nel presente. La storia non avanza per continuità, ma per scarti improvvisi: momenti in cui ciò che sembrava sepolto torna a vibrare. Il suo Angelus Novus di Klee, l’angelo che guarda verso il passato mentre una tempesta lo spinge verso il futuro, è l’immagine più precisa di ogni rivoluzione: l’uomo che avanza trascinato dalle rovine del suo stesso progresso. Benjamin ci ricorda che ogni trasformazione è, al tempo stesso, distruzione e salvezza. Ogni nuova epoca si apre non cancellando il passato, ma raccogliendo le sue macerie.


Pensiamo alla cosiddetta Rivoluzione industriale: la macchina a vapore, che ne è divenuta l’icona, non fu un’invenzione improvvisa, ma l’esito di secoli di sperimentazioni termodinamiche, di intuizioni sparse, di gesti ripetuti in botteghe e officine. La “fabbrica” era già in potenza nel mulino ad acqua medievale, nell’organizzazione proto-industriale delle manifatture veneziane, nei sistemi di contabilizzazione delle corporazioni. Ogni nuova epoca è dunque una stratificazione, una somma di tentativi che solo dopo, a posteriori, riconosciamo come principio.


Lo stesso vale per la catena di montaggio, che nel Novecento trasformò la produzione in automatismo. Ford e Taylor codificarono ciò che il capitalismo aveva già intuito nel secolo precedente: la potenza economica della ripetizione. Ma dietro la ripetizione meccanica c’era ancora un’idea premoderna: il tempo come misura del lavoro, la vita scandita dal ritmo produttivo. Ogni svolta, per quanto radicale, porta con sé il fantasma della precedente.


La rivoluzione digitale, a sua volta, non nacque dai computer, ma dai registri contabili, dai codici, dalle macchine da scrivere, dai telegrafi. È l’estensione logica di un desiderio antico: tradurre il mondo in segni, misurarlo, archiviarlo, comprimerlo in un linguaggio. Così come la rivoluzione dell’intelligenza artificiale che oggi ci inquieta non è una comparsa improvvisa, ma l’ultima tappa di una lunga serie di automatismi — prima fisici, poi informativi, ora cognitivi. Ogni volta, l’uomo ha costruito una macchina per liberarsi da un compito e ha finito per crearne un altro, più complesso, più astratto, più inafferrabile.


In questa prospettiva, le “soglie storiche” non coincidono con i momenti di invenzione, ma con quelli di visibilità. Un cambiamento diventa rivoluzione quando si rende percepibile: quando altera le abitudini, la percezione del tempo, la struttura del quotidiano. La stampa a caratteri mobili di Gutenberg, ad esempio, fu una scoperta tecnica minore rispetto alle trasformazioni culturali che generò: la nascita dell’autore moderno, del lettore solitario, dell’opinione pubblica.

Lo stesso accade oggi con l’IA: la tecnologia esisteva già, ma solo ora entra nella sfera dell’esperienza comune, solo ora modifica la percezione del pensare.


Secchi ci aiuta a leggere questo fenomeno anche in chiave urbana: la città moderna non nasce dal nulla, ma si riorganizza attorno a nuove logiche produttive e simboliche. Ogni rivoluzione tecnica riscrive la geografia del vivere — fabbriche e quartieri nel XIX secolo, data center e reti nel XXI. La città diventa l’archivio materiale delle nostre transizioni, la forma visibile della continuità sotto la discontinuità.


Se guardiamo con questo sguardo, anche la cosiddetta “rivoluzione dell’intelligenza artificiale” appare meno un punto di partenza e più una fase di maturazione. Non segna l’inizio di un’epoca, ma la soglia in cui più epoche si sovrappongono: il gesto manuale, la ripetizione automatica, la mediazione digitale e ora la delega cognitiva. È la stessa energia, la stessa tensione verso l’efficienza e la previsione, che cambia pelle e linguaggio. La novità non sta nella tecnologia in sé, ma nel modo in cui riorienta la nostra idea di tempo e di lavoro.


Comprendere che le rivoluzioni non cominciano mai da zero significa, in fondo, rinunciare alla retorica della nascita e della fine. Significa accettare che il presente non è che un mosaico di durate sovrapposte, di resistenze e di accelerazioni. Ogni innovazione nasce in un terreno ibrido, dove la tradizione continua a lavorare, invisibile, dentro le strutture del nuovo.


Siamo dunque ancora dentro una lunga rivoluzione iniziata secoli fa: quella che tenta di trasferire la fatica umana alla macchina. Abbiamo delegato la forza, poi il gesto, poi il calcolo; oggi deleghiamo il pensiero. E come ogni volta, la soglia non è nel momento in cui la tecnologia diventa possibile, ma in quello in cui diventa normale. Solo allora il mondo si accorge di essere cambiato.



Le fasi intermedie: dove il tempo si addensa

“[...] Un ampio gruppo di scienziati, pionieri della tecnologia, accademici, figure politiche e divulgatori chiede di bloccare lo sviluppo di sistemi di intelligenza artificiale caratterizzata da una ‘super intelligenza’ finché non ci saranno prove solide che questa tecnologia porti più benefici che rischi per l’umanità [...]” (Fernanda González, Wired, 24.10.2025)


Quando la paura attraversa anche i laboratori, significa che una civiltà sta entrando nel suo momento critico. Che il dubbio, prima confinato alla società civile, si è esteso fino ai vertici della conoscenza. L’appello firmato da Geoffrey Hinton e Yoshua Bengio — due tra i “padrini dell’intelligenza artificiale moderna” — non è solo un gesto tecnico o politico: è un atto di consapevolezza storica. Per la prima volta, la comunità scientifica riconosce pubblicamente che la propria creazione potrebbe superare il controllo umano. È come se Prometeo, nel momento stesso in cui consegna il fuoco, si rendesse conto di aver messo in moto qualcosa di più grande di lui.


Le fasi intermedie della storia sono fatte di questa densità: momenti in cui il sapere non coincide più con la sicurezza, e la scoperta diventa ambivalente. Ogni rivoluzione attraversa una zona di incertezza, in cui vecchie e nuove logiche convivono e si osservano con sospetto. Non si tratta di una semplice transizione tecnica, ma di una mutazione percettiva. L’uomo inizia a vedere il proprio tempo come un ibrido di epoche: ancora dentro la precedente, già immerso nella successiva.


In queste fasi, il mondo non si divide in “favorevoli” e “contrari” al progresso: si popola di soggetti disorientati, che tentano di comprendere cosa stia effettivamente cambiando. Il progresso non si percepisce dall’interno come avanzamento lineare, ma come turbine, come perdita di equilibrio.


Questo spaesamento non è solo psicologico: è materiale, geografico, strutturale. David Harvey, in La crisi della modernità (2010), ha definito questo processo una “compressione spazio-temporale”: lo spazio si restringe, le distanze collassano, il tempo dell’azione si accelera mentre quello dell’elaborazione si riduce. L’economia capitalistica, nel tentativo di superare le proprie crisi, ha conquistato lo spazio e lo ha soggiogato, riducendo gli orizzonti temporali delle decisioni e della vita quotidiana. Il risultato è una crisi di rappresentazione: non riusciamo più a raccontare dove siamo, né in quale tempo viviamo. Passato e futuro si sovrappongono e scivolano continuamente nel presente.


Nella Parigi ottocentesca che Harvey legge come laboratorio di questa accelerazione, arte e letteratura furono le prime a registrare il mutamento. Le pennellate di Manet cominciarono a decomporre lo spazio tradizionale della pittura e a esplorare la frammentazione della luce e del colore; Baudelaire cercava di trascendere la transitorietà del luogo verso significati eterni; Flaubert sperimentava nuove strutture temporali del racconto, fredde e distaccate. Ognuno, a suo modo, cercava di dare forma a una percezione spezzata del tempo. È sempre così nelle fasi intermedie: l’estetica precede la teoria, anticipa il linguaggio con cui una civiltà imparerà a descrivere la propria mutazione.


Ogni epoca di transizione è anche un’epoca di ansia semantica. Le parole smettono di significare come prima, ma non ne hanno ancora trovate di nuove per sostituirle. Il “lavoro” non è più solo produzione, ma anche supervisione, addestramento, interazione con sistemi che apprendono. Il “tempo libero” non è più tempo senza lavoro, ma tempo in cui il lavoro continua invisibilmente, attraverso i dati che generiamo. Persino la parola “pensare” si fa incerta: se un algoritmo elabora idee, cosa resta dell’intelligenza come tratto distintivo dell’uomo?


In Forme di città ricordavo, citando Clementi, che “[...] si aprono voragini di instabilità e di incertezza, con un passato anche recente che appare sempre più lontano e un futuro che arretra progressivamente al nostro avvicinarsi [...]” (Il testo del tempo e i suoi diritti, 1993, p. 98).

È la descrizione più precisa del presente: un tempo che non riesce più a distinguere l’“ancora” dal “non più”. Il rischio, osserva Clementi, è la divaricazione irreparabile tra lo spazio dell’esperienza e l’orizzonte dell’attesa — tra ciò che siamo stati capaci di vivere e ciò che riusciamo ancora a immaginare. In questo scarto si consuma la nuova forma di ansia collettiva: l’individuo, paralizzato nel presente, guarda al passato come a un rifugio e al futuro come a una minaccia.


Le fasi intermedie, dunque, non sono solo passaggi economici o tecnologici: sono esperienze esistenziali collettive. Sono i momenti in cui una civiltà riformula la propria immagine di sé. Non è un caso che gli stessi scienziati dell’IA avvertano oggi il bisogno di “fermare la corsa”. Dietro la cautela non c’è paura del futuro, ma nostalgia di un limite: la consapevolezza che senza limiti non esiste misura, e senza misura non esiste responsabilità.


Ogni volta che una tecnologia diventa più potente del contesto etico che la contiene, si produce una crisi del senso. È successo con la bomba atomica, con l’ingegneria genetica, con il digitale. Ora accade con l’intelligenza artificiale. Il sapere, per la prima volta, si guarda allo specchio e riconosce in sé la possibilità dell’eccesso. E questo riconoscimento non è una sconfitta, ma il segno che siamo — ancora una volta — nell’intervallo del cambiamento.


Nelle fasi intermedie nulla è ancora deciso: è il momento in cui le strutture sociali, culturali e morali cercano di riallinearsi a una forza nuova che non comprendono del tutto. È il tempo della domanda, non della risposta. E forse è proprio qui che si misura la maturità di una civiltà: non nella velocità con cui abbraccia il futuro, ma nella pazienza con cui accetta di non capirlo subito.



La crisi del significato del lavoro

Ogni rivoluzione tecnologica è, prima di tutto, una rivoluzione del lavoro. È sul lavoro che si misurano i veri cambiamenti delle epoche, perché è nel lavoro che si incontrano la tecnica, l’economia e la dignità dell’uomo. Ogni volta che una nuova forma di produzione emerge, essa non si limita a trasformare i mezzi, ma ridefinisce ciò che consideriamo umano: la fatica, la competenza, la creatività, la responsabilità.


Dalla forza fisica alla macchina, dal gesto al processo, dall’azione alla decisione: la storia della modernità è una lunga delega. Abbiamo affidato alla tecnica il compito di alleggerire la nostra condizione, ma a ogni delega corrisponde una perdita di senso. Il primo telaio meccanico non sostituì solo il braccio dell’artigiano, ma anche la sua autorialità: l’orgoglio di vedere in ogni trama un segno personale. Come ricordava Marx, l’operaio che non riconosce più sé stesso in ciò che produce vive l’alienazione del lavoro: la separazione tra soggetto e opera, tra creatore e prodotto.

Da allora, la domanda non è più “cosa produco?”, ma “che parte del processo rappresento?”.


Il Novecento portò questa logica all’estremo con la standardizzazione taylorista: ogni gesto doveva essere misurato, ottimizzato, calcolato. Il corpo umano, una volta modello di flessibilità, divenne parametro d’efficienza. Eppure, anche in quell’ordine meccanico, restava un residuo irriducibile: il pensiero. L’uomo poteva ancora progettare, decidere, inventare. Era la mente, più che il corpo, a rappresentare la frontiera della libertà.


Poi arrivò il digitale. Con l’informatica, la produzione smise di essere materiale per diventare logica.

La fabbrica si dissolse nella rete, il lavoro si spostò nei flussi informativi, nelle comunicazioni, nei servizi. Il computer non chiese più forza né resistenza, ma attenzione. E così, lentamente, la mente divenne la nuova macchina. Ogni operazione, ogni interazione, ogni clic era una piccola unità di lavoro cognitivo, invisibile ma costante.


Byung-Chul Han (Nello sciame. Visioni del digitale, 2015) ha descritto questa fase come il passaggio dalla società disciplinare alla società della prestazione: non ci viene più imposto di lavorare dall’esterno, ma siamo noi stessi a trasformarci in risorsa. Non c’è più un padrone che comanda, ma un io che si auto-sfrutta. La libertà si rovescia in obbligo, l’autorealizzazione in produttività permanente. “Sii te stesso” diventa l’imperativo di un’economia che misura anche l’interiorità.


All’inizio, questa trasformazione apparve liberatoria. Il lavoratore sembrava finalmente emancipato dal peso della materia. Ma presto la leggerezza del lavoro immateriale rivelò il suo rovescio: l’assenza di confini. Il tempo non era più scandito dal turno o dalla sirena, ma da una continuità senza tregua, in cui la produttività si infiltrava nel sonno, nelle relazioni, nei desideri. L’essere umano diventò sempre disponibile, sempre connesso, sempre valutabile. È la stessa logica che Branzi aveva colto nella dissoluzione dei limiti spaziali e Harvey nella “compressione spazio-temporale”: il lavoro, oggi, è il non-luogo (concetto introdotto da Marc Augé nel 1992 nel suo libro Non-lieux) per eccellenza — senza tempo, senza pausa, senza esterno.


Oggi, con l’intelligenza artificiale, la trasformazione tocca l’ultimo baluardo: la facoltà di pensare.

Non più solo eseguire o elaborare, ma decidere, creare, interpretare. L’IA produce testi, progetti, immagini, giudizi; e lo fa spesso in modo più rapido, coerente e neutrale dell’essere umano. Ciò che per secoli avevamo considerato “esclusivamente nostro” diventa condiviso con un’entità non umana. Per la prima volta nella storia, la creatività non è più sinonimo di umanità.


Günther Anders (L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, 1956) chiamava questa condizione “vergogna prometeica”: il disagio dell’uomo di fronte alle proprie macchine, percepite come più pure, più efficienti, meno difettose di lui. Oggi quella vergogna si è spostata dalla forza fisica alla mente. Non ci sentiamo più inadeguati perché le macchine sono più forti, ma perché sono più lucide, più coerenti, più implacabili.


La crisi del lavoro non è dunque soltanto economica o occupazionale: è ontologica. Se la macchina può scrivere un romanzo, comporre una sinfonia o risolvere un problema di logica, dove si colloca il valore del pensiero umano? Non basta dire che l’uomo resta insostituibile: bisognerebbe chiedersi in che cosa lo sia. Forse non più nell’efficienza, ma nell’imperfezione; non nell’ottimizzazione, ma nella contraddizione. Il lavoro umano, in questo nuovo orizzonte, potrebbe ritrovare senso solo come spazio dell’imprevisto, della soggettività, del dubbio.


Le fasi intermedie che stiamo vivendo mostrano già questa tensione: professioni ibride, lavori condivisi tra uomo e algoritmo, competenze che oscillano tra l’analogico e il digitale.


Un segnale concreto di questa transizione arriva dal Future of Jobs Report 2025 del World Economic Forum, secondo cui l’automazione e l’intelligenza artificiale trasformeranno radicalmente il mercato del lavoro globale: 170 milioni di nuove posizioni ma 92 milioni destinate a scomparire. A sopravvivere saranno i lavoratori capaci di aggiornarsi costantemente, anche grazie a piattaforme di “micro-learning” che rendono la formazione continua, elastica e personalizzata. Ma dietro questi numeri, che sembrano indicare una compensazione ottimistica tra perdite e opportunità, si nasconde una tensione più profonda: il lavoro stesso non è più un territorio stabile, ma un flusso in perenne ridefinizione. Non esiste più un mestiere “dato”, ma solo una sequenza di adattamenti che sposta il baricentro dall’esperienza all’aggiornamento, dal sapere accumulato al sapere aggiornabile.

È la traduzione economica della stessa instabilità percettiva che definisce il nostro tempo: un lavoratore sempre connesso, sempre formabile, sempre provvisorio.


Il lavoro diventa una negoziazione continua tra ciò che possiamo delegare e ciò che dobbiamo trattenere.


Ma è una negoziazione fragile, perché nessuno sa ancora dove passa il confine. È possibile che, in futuro, non parleremo più di “posti di lavoro”, ma di zone di cooperazione cognitiva tra esseri umani e sistemi artificiali. E tuttavia, finché continueremo a misurare il valore in termini di produttività, la macchina avrà sempre il vantaggio.


La crisi del lavoro, dunque, non riguarda soltanto la quantità di occupazione, ma il significato stesso del produrre. Se per secoli il lavoro ha rappresentato la via d’accesso alla dignità e all’identità sociale, oggi rischia di ridursi a semplice funzione di sopravvivenza, un’appendice del sistema automatizzato. La perdita più grande non è economica, ma simbolica: la scomparsa del lavoro come narrazione condivisa dell’essere umano.


È possibile che, tra qualche decennio, il “lavoro” come lo abbiamo inteso finora diventi un concetto arcaico, utile solo a descrivere un’epoca in cui l’uomo doveva ancora fare per esistere. Ma forse, proprio in questa crisi, si nasconde una possibilità: quella di riconoscere il valore del non-produrre, del pensare lento, dell’immaginare. In un mondo dove tutto è ottimizzato, il gesto "inutile" — l’arte, il gioco, la riflessione — potrebbe tornare a essere la forma più alta di libertà.



La co-intelligenza (o il miraggio dell’armonia)

Ogni epoca, quando scopre di aver superato se stessa, reagisce con un misto di smarrimento e speranza. La nostra non fa eccezione. Dopo secoli in cui la tecnica ha ampliato i confini del corpo e della mente, ci troviamo ora davanti a un paradosso: per la prima volta, la nostra intelligenza non è più sola.


Non si tratta più di dominare o di essere dominati, ma di convivere con una forma di ragione che non ci appartiene interamente. L’intelligenza artificiale non ci ruba la mente: la riflette, la replica, la mima — e così facendo, ci mette di fronte alla domanda più inquietante: che cosa distingue ancora l’uomo dalla sua creazione?


Il termine co-intelligenza circola con ottimismo nel dibattito contemporaneo. Secondo Tom Atlee (The Tao of Democracy, 2003) e Pierre Lévy (L’intelligence collective, 1994), descriverebbe la capacità di una comunità — o di una rete — di condividere sapere e agire in modo collettivo. Applicato all’IA, sembra suggerire una possibile alleanza tra umano e macchina: un’intelligenza distribuita, interattiva, complementare. Ma è davvero così? O è soltanto la forma più sofisticata della nostra antica illusione di controllo?


Günther Anders scriveva nel 1956 (L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale) che l’uomo vive in uno stato di “dislivello prometeico”: la sua capacità di produrre supera la sua capacità di immaginare ciò che produce. È un ritardo ontologico, una frattura tra la potenza e la coscienza. E forse è proprio questo il vero significato della co-intelligenza: non la collaborazione, ma il tentativo disperato di colmare un abisso.


La macchina impara, ma non sa di imparare. L’uomo crea, ma non sa più fino a che punto la sua creazione gli appartenga. Entrambi agiscono, ma nessuno dei due comprende fino in fondo la natura dell’altro. Non è un incontro, è una zona grigia: un dialogo incompiuto in cui le parole stesse cambiano significato.


Walter Benjamin, ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, aveva già intuito che ogni innovazione tecnologica modifica la percezione, non solo la produzione. La perdita dell’aura non è la morte dell’unicità, ma la nascita di un mondo in cui tutto è replicabile, intercambiabile, esposto. Oggi, questa condizione si è estesa all’intelligenza: ciò che pensiamo può essere duplicato, simulato, riutilizzato. Non perdiamo solo l’aura delle opere, ma quella dei pensieri.


Donna Haraway, nel Manifesto Cyborg (1985), immaginava un ibrido capace di superare i dualismi della cultura moderna. Ma quell’immagine, oggi, sembra più un avvertimento che una promessa.

Il cyborg non è più metafora: è infrastruttura. E non ci libera dalle gerarchie, le rende invisibili, inscrivendole nei codici, negli algoritmi, nei flussi di dati che regolano la nostra quotidianità.


Byung-Chul Han, in Nello sciame (2014), scrive che la connessione continua dissolve ogni distanza contemplativa: non guardiamo più, scorriamo. Il pensiero si appiattisce sul presente, la profondità diventa superficie. È la fine dell’aura di Benjamin, ma anche della lentezza di cui il pensiero ha bisogno per esistere.


Roberto Mordacci, nella Condizione neomoderna (2017), sostiene che la nostra epoca non è post-moderna ma “iper-moderna”: accelerata, frammentata, consapevole della propria crisi ma incapace di fermarsi. La co-intelligenza, in questa luce, non appare come una sintesi pacifica, bensì come il sintomo della nostra nuova modernità: una modernità riflessiva, ma ancora prigioniera della propria velocità.


Forse non siamo pronti alla co-intelligenza. Forse è solo un nome che diamo alla nostra paura più profonda: quella di non essere più necessari. Non sappiamo ancora se le macchine potranno pensare davvero, ma sappiamo che ci costringono a pensare diversamente. E in questo “diversamente” c’è tutto il peso del tempo che stiamo vivendo: un tempo di convivenze irrisolte, di domande senza risposta, di gesti che oscillano tra controllo e abbandono.


La co-intelligenza, allora, non è un destino, ma una sospensione: un concetto-ponte che ci permette di parlare di qualcosa che ancora non esiste. Non un nuovo umanesimo, ma un umanesimo in attesa — che si interroga, che dubita, che non pretende di sapere. Un umanesimo che, come scriveva Benjamin, “cammina all’indietro verso il futuro”, guardando le rovine mentre la tempesta del progresso lo spinge avanti.



L’intervallo del cambiamento

Ogni epoca è convinta di vivere un cambiamento senza precedenti. E forse è vero, ma solo perché ogni generazione scopre la propria fragilità temporale: il momento in cui le certezze si incrinano e le promesse del futuro non hanno ancora trovato forma. È in questi istanti sospesi che la storia si fa più densa, più umana. Non nei gesti eroici o nelle invenzioni improvvise, ma nelle esitazioni, nelle ambivalenze, nei tentativi di dare nome a ciò che non esiste ancora.


Le rivoluzioni, dopotutto, non sono che modi per raccontare l’incertezza. Servono a ordinare il disordine del tempo, a dare un senso alla continuità. Ogni volta che una tecnologia trasforma il mondo, non distrugge ciò che era prima: lo ingloba, lo riscrive, lo sposta di significato. La macchina a vapore portava in sé la fatica delle braccia umane; l’automatismo industriale conteneva la logica delle botteghe; il digitale ha moltiplicato la mente fino a farla rete. Ora, con l’intelligenza artificiale, l’uomo si trova davanti al suo riflesso più complesso: una macchina che imita la coscienza e, così facendo, la interroga.


Ma non siamo ancora nel tempo della co-intelligenza. Siamo in una zona di frizione, dove l’uomo tenta di comprendere una mente che non pensa come lui e la macchina simula un pensiero che non sa di esistere. Entrambi si muovono nell’intervallo: uno spazio di prossimità senza comprensione. Il futuro, per ora, resta un linguaggio che nessuno dei due parla davvero.


Forse è per questo che la paura attraversa sia la società sia la scienza: perché non temiamo l’ignoto, ma il riconoscibile. Temiamo la somiglianza, l’ambiguità tra naturale e artificiale, l’idea che il pensiero possa essere emulato. È la stessa paura che, a ogni passaggio, accompagna la scoperta della nostra vulnerabilità. Ogni volta che deleghiamo una parte di noi alla tecnica, perdiamo qualcosa — ma, in quella perdita, impariamo anche a riconoscerci.


Le fasi intermedie non sono semplici interludi: sono il luogo dove l’uomo fa esperienza del proprio limite e lo trasforma in conoscenza. Sono i momenti in cui il tempo si addensa e costringe a pensare, in cui l’agire rallenta e la riflessione diventa necessità. In questo senso, il presente non è un punto tra passato e futuro, ma una soglia abitabile. È qui, nell’intervallo, che la storia ci chiede di scegliere cosa portare con noi e cosa lasciare andare.


La crisi del lavoro, la delega cognitiva, la paura dei padri dell’intelligenza artificiale: tutto converge verso una stessa domanda — non “cosa diventerà l’uomo”, ma come saprà abitare la transizione.

Forse il compito più urgente non è prevedere il futuro, ma imparare a sostare: restare lucidi mentre il mondo cambia, senza pretendere di fermarlo né di subirlo. Abitare l’intervallo significa riconoscere che la storia non ha bordi netti, che ogni epoca contiene l’eco della precedente e la prefigurazione della successiva.


Walter Benjamin scriveva che il tempo “lampeggia” in ogni istante, e che solo cogliendone la scintilla possiamo redimere il presente. Forse è questa la nostra occasione: non trovare una sintesi tra uomo e macchina, ma imparare a leggere nei lampi del loro incontro la misura del nostro tempo.


Come scrivevo in Tutte le favole per bambini cresciuti (2025), oggi l’intelligenza artificiale è ancora uno strumento, non un creatore autonomo. Ma resta fondamentale conoscerla, sperimentarla, comprenderne i limiti e le possibilità. Solo così possiamo restare protagonisti attivi del cambiamento, non soggetti passivi — e guardare al futuro con la volontà di plasmarlo invece di subirlo. Non per dominarlo, ma per comprenderlo. Perché solo nell’intervallo tra paura e conoscenza, tra controllo e perdita, l’uomo e la donna restano ancora umani.

 
 
 

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