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I miei commenti e recensioni - Fare i conti con il passato: tra fonti, narrazioni e immaginazioni

  • Immagine del redattore: Nicola Vazzoler
    Nicola Vazzoler
  • 25 set
  • Tempo di lettura: 6 min

Ho sempre avuto un amore atavico per la storia. Non tanto per le date o le cronache, quanto per i contesti: quegli intrecci di cause ed effetti che hanno prodotto azioni, e subito dopo le loro contrarie e opposte. Amo la rovina, perché non è mai solo maceria ma simbolo di un passato che può ancora parlarci, se abbiamo la pazienza di ascoltarlo. Amo i metodi di indagine, la minuzia con cui si raccolgono segni e tracce, e la vertigine dell’interpretazione che inevitabilmente segue. È per questo che, quando penso all’archeologo, non posso non pensare anche a Sherlock Holmes: il cacciatore di indizi che da un frammento ricostruisce interi mondi.


E poi c’è un libro che mi ha accompagnato in un contesto apparentemente lontano: il corso di dottorato in urbanistica a Roma. Non chiedetemi perché (in realtà c’è un perché ma ci vorrebbero ore per spiegarlo), ma mi sono trovato a studiare Archeologia teorica di Andrea Giannichedda (Carocci editore). Eppure proprio da lì ho compreso, forse, molte cose: che ogni reperto è già un’interpretazione, che non esistono scavi neutrali, che l’archeologia oscilla sempre tra il rigore del metodo e il rischio dell’immaginazione.


È da questi amori – la rovina, i metodi, i libri incontrati per caso – che nasce, non una delle mie solite recensioni, ma una riflessione sul passato e su chi ha provato a raccontarcelo.



L’archeologo di fatto

C’è un modo molto concreto di fare archeologia: scavare, catalogare, confrontare le fonti e, soprattutto, distinguere tra ipotesi e realtà. È l’archeologo “di fatto”, quello che non si lascia trascinare dal mito ma lo smonta pezzo per pezzo, chiedendosi sempre quanto ci sia di vero e quanto di leggenda. È il metodo che Raffaele Mambella adotta nel suo Antinoo. Un uomo, un Dio (Ginevra Bentivoglio EditoriA).


La forza del testo sta proprio in questo: collocare Antinoo e Adriano dentro una cornice ampia – politica, artistica, religiosa – senza mai cedere del tutto al fascino della pura narrazione. L’archeologo, direbbe Giannichedda (Archeologia teorica), non è mai indipendente: le sue interpretazioni nascono da problemi che appartengono anche alla storia, all’antropologia, alla filosofia. Mambella ne è un esempio chiaro. Non si limita a raccogliere reperti, ma incrocia testimonianze, confuta ipotesi (incidente, assassinio, sacrificio umano?) e ci mostra come la morte lungo il Nilo di un ragazzo sia diventata il detonatore di un culto che attraversò l’impero.


In questo approccio c’è la precisione dello scienziato e insieme l’abilità del “cacciatore” evocata da Carandini e ripresa da Giannichedda: riconoscere tracce, tipologizzare prede, leggere contesti. Ogni frammento viene organizzato in una trama coerente: la deificazione di Antinoo come gesto politico e insieme come gesto d’amore. Così si spiega la fondazione di Antinoopoli, la diffusione del culto in Egitto, in Grecia e perfino ad Aquileia, nell’allora tempio di Iside e Serapide. Così si coglie il doppio movimento: Adriano che sublima un dolore privato e l’imperatore che rafforza la propria autorità, consolidando i rapporti con province e territori.


Mambella lavora come un archeologo processuale: attento alle prove, al rigore, alla necessità di distinguere tra fatti e interpretazioni. Ma la sua prosa lascia intravedere anche un livello ulteriore: nessun dato è mai puro, ogni reperto è già una narrazione. Per questo, accanto alle testimonianze, affiora sempre il mito, e il busto di Antinoo diventa non solo l’ultima grande opera del classicismo greco, ma anche un simbolo che attraversa i secoli, fino al Rinascimento, quando la sua immagine torna a ispirare artisti e intellettuali. Non più come culto vivo, ma come reperto estetico, già trasformato in archeologia.



L’archeologo emotivo

Se Mambella rappresenta l’archeologo di fatto, attento a documenti e testimonianze, Marguerite Yourcenar è l’archeologo emotivo. Memorie di Adriano (Einaudi) non è un saggio né un trattato, ma una lettera immaginaria che si legge come un dialogo privato e intimo, capace di attraversare i secoli.


La sua scrittura è uno scavo interiore: non disseppellisce cocci o colonne, ma i pensieri, i dubbi, le passioni di un uomo che ha governato il mondo eppure non riesce a governare il proprio dolore. Le “pietre autentiche” ci sono – le fonti, le rovine, i busti – ma diventano strumenti per ricostruire emozioni e significati. Yourcenar parte sempre da un reperto, da un frammento, da una traccia reale, ma poi lo trasforma in un varco verso la psicologia e la sensibilità dei suoi personaggi.


In questo scavo interiore, il cuore è Antinoo. La sua presenza nella sezione Saeculum Aureum non è un dettaglio biografico, ma il centro emotivo e filosofico dell’opera. Antinoo è bellezza assoluta, giovinezza perduta, promessa di eternità. È l’oggetto di un amore che non è solo passione, ma ossessione per ciò che il tempo porta via. La sua morte nel Nilo diventa la cesura che scava una voragine nella vita dell’imperatore, privandolo di ciò che per lui rappresentava l’incarnazione della grazia e della perfezione.


Qui Adriano non agisce da politico, ma da uomo: piange, sublima, trasforma il dolore in mito. La deificazione di Antinoo non è soltanto un atto di potere, ma un tentativo disperato di fermare l’irreparabile. Antinoo diventa dio perché Adriano non sopporta l’idea che finisca.


Ed è proprio qui che entra in gioco la lezione di Giannichedda: l’archeologia non è mai soltanto funzione o contesto, ma anche credenze, estetica, significato. Laddove un approccio più tradizionale si sarebbe fermato a spiegare gli effetti politici e sociali di quel culto, la Yourcenar sceglie di indagare il gesto umano, la fragilità, il bisogno di eternizzare un amore.


La sua è un’archeologia “post-processuale” ante litteram: non si accontenta di date e cronologie, ma fa delle rovine un dialogo con il tempo, delle statue uno specchio della caducità, del mito un modo per parlare della nostra stessa vulnerabilità.


In questo senso, Marguerite Yourcenar è davvero un’archeologo emotivo: capace di raccontare la storia antica non come un deposito di dati, ma come un orizzonte che ci riguarda ancora oggi.



L’archeologo del futuro

C’è poi un terzo modo di fare archeologia, che non appartiene al passato ma a un domani immaginato. È quello che ho provato a raccontare ne L’archeologo (in Tutte le favole per bambini cresciuti), dove Jonas non si china su cocci o busti, ma su un’armatura impossibile, sepolta sotto strati di città e di tempo.


Qui lo scavo non è fatto di terra e cazzuole, ma di codici, server e algoritmi predittivi. Non c’è un contesto chiaro, non c’è una stratigrafia ordinata: c’è un reperto che resiste a ogni classificazione, un file che si corrompe, un archivio che oscura ciò che dovrebbe rivelare. È un’archeologia paradossale: più tecnologie possediamo, più rischiamo di perdere memoria.


Jonas procede come un archeologo post-postmoderno: formula ipotesi, si scontra con sistemi di sicurezza che cancellano dati, ricompone frammenti incompleti. È lo stesso gesto che Giannichedda attribuisce al “cacciatore-detective”: riconoscere segni, leggere indizi, formulare scenari possibili senza mai poterli verificare del tutto. Solo che qui la posta non è il passato remoto, ma il futuro della memoria.


Perché l’armatura di Jonas, come il busto di Antinoo o la voce inventata da Yourcenar, non è solo un oggetto. È un simbolo: di ciò che dimentichiamo, di ciò che vogliamo eternizzare, di ciò che non riusciamo più a distinguere tra mito e realtà.


Se Mambella cerca di ordinare il culto con rigore documentario e Yourcenar lo reinventa con scavo emotivo, Jonas ci mette in guardia: senza cura del presente, anche le tracce più solide rischiano di dissolversi in un clic, diventando un “protocollo di contenimento attivato” dentro un archivio spento.


È un’archeologia del futuro che non conserva, ma perde; che non trasmette, ma oscura; che ci chiede di interrogarci non su ciò che resta, ma su ciò che rischia di sparire.



Fare i conti con il passato

Tre archeologi, tre modi di guardare ciò che è stato.

Mambella, l’archeologo di fatto, mette ordine tra fonti, prove e ipotesi, ricostruendo il culto di Antinoo come gesto politico e umano allo stesso tempo.

Yourcenar, l’archeologo emotivo, scava nel pensiero e nel dolore, trasformando Adriano in una voce che ancora ci parla.

Jonas, l’archeologo del futuro, inciampando in un reperto indecifrabile ci ricorda che la memoria, se non la custodiamo, può dissolversi in un clic, ridursi a un file corrotto in un archivio dimenticato.


Tre sguardi diversi, ma complementari: il rigore delle fonti, la forza della narrazione, l’immaginazione che proietta oltre. Tutti, in fondo, impegnati nello stesso mestiere: dare un senso a ciò che resta, colmare i vuoti che il tempo scava.


Forse è proprio questo il punto che Giannichedda ci invita a cogliere: l’archeologia non è mai solo tecnica né solo fantasia, oscilla sempre tra metodo e immaginazione, tra il cacciatore che fiuta indizi e lo scienziato che li ordina in serie. Scavare non è soltanto estrarre oggetti, ma leggere tracce, silenzi, assenze. E in quelle assenze, inevitabilmente, finiamo sempre per incontrare anche noi stessi — come davanti a una rovina, a una statua di Antinoo, a un file che lampeggia nell’oscurità.

 
 
 

2 commenti


Ospite
28 set

Interessanti considerazioni, evidentemente influenzate da un bravo docente universitario che è riuscito a lasciare belle tracce nello studente. Personalmente non ho avuto la fortuna di frequentare l'università' ma il caso ha voluto che la mia infanzia ha trovato come aree di gioco il Foro Romano di Aquileia, dentro il quale sono nato, il vicino decumano, il Porto fluviale, il"Montaron" nella prima bonifica di Maria Teresa d'Austria nell'agro aquileiese (le Marignane). E poi crescendo ho letto giovanissimo "Adriano" , autrice la grande scrittrice, ho conosciuto e per tre anni lavorato copiando frammenti di epigrafi con Giovanbattista Brusin, scambiato opinioni con Andrea Carandini, grazie a Tito Maniacco, frequentato a lungo Luisa Bertacchi, Giuseppe Cucito, Mario Mirabella Roberti, Roberto Costa e Renato Iacumin.…

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28 set

Interessanti considerazioni, evidentemente influenzate da un bravo docente universitario che è riuscito a lasciare belle tracce nello studente. Personalmente non ho avuto la fortuna di frequentare l'università ma il caso ha voluto che la mia infanzia ha trovato come aree di gioco il Foro Romano di Aquileia, dentro il quale sono nato, il vicino decumano, il Porto fluviale, il "montaron" nella prima bonifica di Maria Teresa d'Austria nell'agro aquileiese (le Marignane). E poi crescendo ho letto giovanissimo "Adriano", autrice la grande scrittrice, ho conosciuto e per tre mesi lavorato copiando frammenti di epigrafi con Giovanbattista Brusin, scambiato opinioni con Andrea Carandini, grazie a Tito Manuacco, frequentato a lungo Luisa Bertacchi, Giuseppe Cuscito, Mario Mirabella Roberti, Roberto Costa e Renato Iacumin.…

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