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I miei commenti e recensioni - Asimov, Christie e un’avventura in serra

  • Immagine del redattore: Nicola Vazzoler
    Nicola Vazzoler
  • 14 set
  • Tempo di lettura: 4 min

Questa è una delle mie recensioni dedicate al genere giallo. Giallo non il colore, o meglio sì il colore che in Italia designa un genere letterario ben preciso. Perché? Perché nel 1929 Arnoldo Mondadori lanciò una collana di romanzi polizieschi: I libri gialli. Da lì, tutto un giallo. Cosa sarebbe stata Jessica Fletcher senza il giallo? La signora mistero? La signora detective? Volete mettere La signora in giallo? Dopo questa (inutile) introduzione, che aveva il solo scopo di elogiare una fortunata – e forse involontaria – campagna di marketing, inizierei a dire la mia su alcuni libri gialli, per l’appunto.


Asimov e il cameriere che batte tutti

Isaac Asimov non è solo uno che sogna imperi galattici: è anche quel tipo di amico che a cena ti sfida con un indovinello che ti fa rimpiangere il digestivo. Nei Vedovi Neri (iniziati nel 1971), Asimov costruisce un piccolo club di amici che si incontrano una volta al mese, invitano un ospite e, tra un bicchierino e l’altro, tentano di risolvere enigmi “banali” ma spiazzanti. Henry, il cameriere, con una battuta riesce sempre a svelare l’arcano mistero. Ti senti furbo, finché capisci che sei stato fregato da un dettaglio che nemmeno avevi notato.


Asimov nei Vedovi Neri è un satellite del logos (cioè della ragione, quella facoltà che tutti diciamo di avere ma che scompare appena ci arriva una busta verde dell’Agenzia delle Entrate). I suoi racconti si muovono in orbita attorno alla logica pura: un bottone smarrito, un dettaglio linguistico, un paradosso che si scioglie con una domanda semplice.


Henry, il cameriere, non indaga né corre: ascolta. E alla fine illumina il quadro con un’osservazione così banale che ti senti preso in giro. Non c’è pathos, non c’è sangue: solo la dolce tirannia della logica. Non a caso Asimov dichiarava che il suo detective ideale era Poirot, con le sue “little grey cells” (le “celluline grigie”, come l’investigatore belga chiama con orgoglio il cervello e la capacità di ragionare).


Christie e l’arte di chiuderti in una stanza

Se Asimov amava citare Poirot come suo detective ideale, è bene ricordare che Poirot lo ha inventato lei, la famigerata Agatha Christie. E non si è fermata lì: ha creato anche Miss Marple, e soprattutto un modo di intendere il giallo che non ha bisogno di laboratori logici. Le bastava chiudere dieci persone in una villa, spegnere la luce e dire: «Uno di voi morirà stanotte».


In Dieci piccoli indiani i personaggi cadono uno a uno come pedine di una filastrocca macabra. In Trappola per topi sette ospiti restano intrappolati in una pensione isolata dalla neve: ogni parola è un indizio, ogni gesto un depistaggio, ogni sorriso un possibile coltello nascosto dietro la schiena.


Christie faceva parte del Detection Club, dove gli scrittori promettevano di non barare con il lettore: niente passaggi segreti, niente gemelli spuntati all’ultimo, niente dèi ex machina. Ma non era certo ingenua: piegava le regole fino al limite, e con eleganza. In Il sospetto di un’azione il lettore riceve un colpo basso che oggi chiameremmo “plot twist”. Diciamocelo una genialata.


Christie non ti chiede di ragionare come Asimov: ti costringe a sospettare. È la regina del pathos (cioè dell’emozione che ti afferra alla gola e non ti lascia andare, un po’ come quando a tarda notte ricevi la notifica sul cellulare di un messaggio whatsapp del tuo capoufficio). Il suo giallo è un meccanismo di claustrofobia ben oliato: una trappola che scatta quando meno te lo aspetti, e dalla quale non esci indenne.


Una serra tutta mia

Se Asimov orbita attorno al logos e Christie governa con il pathos, con La serra di Villa Winterbourne (raccolto all'interno di Tutte le favole per bambini crescuti) io mi sono affidato al chaos: ho tolto il tappeto sotto i piedi. Niente logica consolatoria, niente suspense a orologeria: solo il gusto (amara dolcezza) di guardare come una serra elegante possa incrinarsi e diventare un esperimento sociale non richiesto.


Alla fine, sempre di gialli stiamo parlando

Tre modi diversi di raccontare un enigma, tre prospettive che sembrano incompatibili e invece finiscono sempre per farci fare la stessa cosa: girare pagina. C’è chi preferisce l’incastro logico e pulito di Asimov, chi si lascia volentieri soffocare dalla suspense calibrata di Christie, e chi – come me – si diverte a far saltare in aria la serra con tutti i suoi ospiti dentro. Ma alla fine poco importa se parliamo di logos, di pathos o di puro chaos: quello che conta è il divertimento del lettore, il brivido del dubbio, la curiosità che ci spinge a restare svegli fino a tardi per scoprire “come va a finire”.


Comunque li vogliate chiamare, in fondo, sono tutti gialli. Non rossi, neri o verdi: gialli. Che siano limone, senape, oro o paglierino non saprei. Forse è il caso di chiamare un consulente di armocromia o, meglio ancora, il sig. Arnoldo Mondadori (se mai fosse disponibile, ne dubito fortemente) per sciogliere questo enigma. Giallo, naturalmente.

 
 
 

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