I miei commenti e recensioni - Calvino e I nostri antenati: dimezzati, rampanti, inesistenti
- Nicola Vazzoler
- 30 set
- Tempo di lettura: 4 min
Trilogia sì, ma niente cavalieri da poster o saghe fantasy: ne I nostri antenati Calvino prende tre figure improbabili e le trasforma in allegorie dell’uomo moderno. Con la leggerezza della fiaba e la profondità della filosofia, costruisce un trittico che parla di identità, libertà e alienazione. A quarant’anni dalla sua scomparsa, queste pagine continuano a interrogarci con forza sorprendente, ed è anche per questo che le mie recensioni vogliono essere un piccolo contributo a rileggerle e a dialogare con loro nel presente
Medardo di Terralba viene colpito da una palla di cannone e torna a casa… dimezzato. Una metà è il Gramo, che semina crudeltà; l’altra è il Buono, che dispensa bontà con un’ingenuità paralizzante. Non un semplice incidente anatomico, ma la metafora dell’uomo moderno: scisso tra bene e male, tra integrità e frammentazione. Calvino ci dice che la totalità è un mito, e che viviamo sempre nell’incompletezza.
Il tono è fiabesco e grottesco, ma dentro ci sono filosofia e psicologia: la relatività del bene e del male, la ricerca di un’unità interiore, l’umorismo come lente per guardare la scissione.
Cosimo Piovasco di Rondò a dodici anni sale su un albero per protesta contro la sua famiglia e decide di non scendere più. Non è una fuga, ma una scelta: vivere sugli alberi gli permette di guardare il mondo da una prospettiva diversa, critica e partecipe allo stesso tempo. Ama, legge, combatte e dialoga con chi sta a terra senza mai perdere il suo punto di vista “sospeso”.
L’allegoria è trasparente: l’intellettuale che mantiene la distanza giusta per comprendere e agire sul reale. Il romanzo è più lungo e complesso degli altri, a metà tra romanzo di formazione e avventura filosofica. Temi centrali sono l’impegno civile, la libertà individuale, l’indipendenza intellettuale, ma anche un’attenzione quasi pre-ecologista al rapporto con la natura.
Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni è un cavaliere perfetto, valoroso, integerrimo… e inesistente. È solo un’armatura vuota animata dalla forza di volontà e dalla precisione dei suoi doveri. Il suo contrario è Gurdulù, che invece esiste fisicamente ma senza coscienza di sé, confondendosi continuamente col mondo che lo circonda.
Qui l’allegoria tocca il cuore dell’esistenzialismo: l’uomo ridotto a pura forma, ruolo sociale senza sostanza; o, all’opposto, materia priva di identità. Calvino indaga la differenza tra “esistere” e “essere”, raccontando con leggerezza la crisi dell’identità contemporanea. Lo stile è più conciso e allegorico, con la cornice narrativa della suora Teodora che fa da voce narrante.
Se Calvino ci ha lasciato tre antenati allegorici — il dimezzato, il rampante e l’inesistente — il mio Cavaliere senza nome (racconto racconto in Tutte le favole per bambini cresciuti) arriva da un universo parallelo, come un lontano parente mai invitato ai banchetti di famiglia. All’inizio sembra l’eroe classico: armatura splendente, draghi abbattuti, magie sconfitte. Ma quando la pace arriva, si toglie l’elmo e scopre di non ricordare più il suo nome, la sua terra, neppure i volti amati. Alla fine resta solo l’armatura vuota, e un vento che porta via non soltanto lui, ma anche le storie che lo tenevano vivo.
Perché il punto non è la sua morte, ma l’oblio: prima personale — la perdita dei ricordi — e poi collettivo — la leggenda che si spegne tra città inquinate e villaggi trasformati. Non è il Visconte, perché non è una metà; non è il Barone, perché non trova un punto di vista; non è nemmeno Agilulfo, che almeno resta forma. È l’eroe che, dopo aver riempito cronache e canti, finisce nel silenzio. Un altro “antenato”, forse, ma il più crudele di tutti: quello che ci ricorda che, senza memoria, non resta più nulla (spoiler: dai un occhio al racconto L'archeologo).
Una trilogia come specchio (e un intruso dal multiverso)
Presi insieme, i tre romanzi di Calvino compongono una parabola dell’uomo moderno: prima frammentato (Visconte), poi sospeso in cerca di nuove prospettive (Barone), infine ridotto a pura forma o a puro caos (Cavaliere). Sono allegorie diverse, ma tutte con la stessa ambizione: raccontare le contraddizioni della modernità con la leggerezza di una fiaba.
Accanto a loro, io ho provato a immaginare un “quarto antenato” con il mio Cavaliere senza nome: un eroe che all’inizio sembra classico e invincibile, ma che alla fine scopre di non avere più né corpo né memoria. Qui non è Calvino, ma il mio tentativo di dialogare con lui.
Le domande che gli antenati più uno sollevano sono in realtà serissime: possiamo mai dirci interi? È possibile impegnarsi senza perdersi? Quanto della nostra identità è autentico, e quanto solo un ruolo che recitiamo? E soprattutto: cosa rimane di noi, se nessuno ci ricorda più?
Ed è proprio questa differenza che chiarisce il gioco: Calvino mette in scena allegorie senza tempo, io inserisco un esperimento personale che riflette più sul dimenticare che sul vivere. Non tre, quindi, ma tre più uno: i nostri antenati… e il cugino dimenticato di un universo parallelo.
Alla fine, il miracolo resta lo stesso: che queste storie – scritte da Calvino o reinventate da noi – continuino a parlarci con la stessa leggerezza di una fiaba e la stessa precisione di una diagnosi. Un po’ come durante una seduta lo psicologo ti guarda negli occhi e ti dice con un sorriso: «Non si preoccupi, è un uomo moderno come tanti. Anzi post moderno che è ancora peggio. Ma non si preoccupi comunque.»




Calvino riesce a rendere tutto così speciale con i suoi scritti. È come un’amico che ci racconta storie che conosciamo già ma che cambiano la prospettiva non avendole mai sentito raccontarle così.