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I miei commenti e recensioni - Il dolore: interruzione, memoria, trasformazione

  • Immagine del redattore: Nicola Vazzoler
    Nicola Vazzoler
  • 5 ott
  • Tempo di lettura: 4 min

Più che una delle mie recensioni questo è un personale commento sul dolore.


Il dolore non è solo una categoria medica: è la voce della nostra vita interiore che urla “Fermati, qualcosa non va”. Non è la semplice fitta al ginocchio o il mal di testa, ma un’interruzione totale: fisica, emotiva, mentale e spirituale. Un’interruzione che ci costringe a prendere atto di una frattura, di qualcosa che si è incrinato e chiede di essere ascoltato.


Ed è soprattutto solitudine. Nessuno può sentire il nostro dolore esattamente come lo sentiamo noi.

È un’esperienza irriducibilmente privata: possiamo raccontarla, condividerla, ma resta sempre un nucleo che appartiene solo a chi lo attraversa.


Per esplorare questa esperienza, ho scelto di attraversare più linguaggi e media: il cinema, con le storie di Oskar e James; la scrittura intima di un diario; e la memoria traumatica che riaffiora in un racconto. Percorsi diversi, ma tutti intrecciati da un filo comune: il dolore come interruzione che diventa memoria, e memoria che si fa trasformazione.


Oskar e il vuoto che non sa parlare – Il dolore come interruzione

Nel viaggio di Oskar, il dolore è prima di tutto interruzione: la perdita del padre spezza il tempo dell’infanzia, lasciando un vuoto che non sa parlare.


Molto forte, incredibilmente vicino (2011, tratto dal romanzo di Jonathan Safran Foer) racconta la storia di un bambino che porta il peso indicibile della perdita paterna negli attentati dell’11 settembre.


Il messaggio va oltre l’evento storico: il film diventa un racconto universale sull’elaborazione del lutto e sulla ricerca di senso di fronte a un trauma che sembra non averne. La chiave trovata da Oskar, appartenuta al padre, è l’àncora che lo lega a lui. Non apre un tesoro, ma la possibilità di resistere al vuoto.


La sua “spedizione” è un meccanismo di sopravvivenza: attraversare New York, affrontare fobie e paure, incontrare centinaia di sconosciuti. In quei volti scopre che la sua sofferenza non è isolata, ma parte di un dolore collettivo che abita la città. Il mistero non si risolve, ma lungo il cammino Oskar trova la vera risposta: ricostruire i legami con sua madre, con la nonna, con gli altri esseri umani.


Il dolore di Oskar è un vuoto che non sa parlare. La sua ricerca serve a trasformare quell’interruzione in parola, in incontro, in cammino.


James e il dolore che diventa crescita – Il dolore come trasformazione

Se Oskar incarna l’interruzione, James – protagonista di Un giorno questo dolore ti sarà utile (2011, tratto dal romanzo di Peter Cameron) – rappresenta la trasformazione: il dolore che non distrugge ma modella, che prepara al cambiamento.


Il titolo stesso, tratto da Ovidio (Perfer et obdura, dolor hic tibi proderit olim) promette che la sofferenza, per quanto inutile sembri, possa trasformarsi in seme di consapevolezza.


James ha diciassette anni e rifiuta di conformarsi a un mondo adulto che percepisce come ipocrita e vuoto. Il suo dolore è quello dell’autenticità: non accettare il mondo così com’è e preferire l’isolamento. Non è malattia, è un passaggio, una mutazione in corso.


Un’estate sospesa diventa il laboratorio delle sue emozioni: rifiuto, paura, desiderio, dissonanze. Nonna Nanette – l’unica guida non giudicante – gli insegna che crescere non significa avere tutte le risposte, ma imparare a stare nell’incertezza. Il dolore non scompare, ma si trasforma in bussola: un “dolore utile” che forgia identità, consapevolezza e autenticità.


James scopre che la solitudine, quando ascoltata, diventa il primo passo verso l’integrità. E che ogni dolore, se attraversato, può diventare la forma più sincera di apprendimento.


Il dolore scritto: la voce che interrompe il silenzio – Il dolore come memoria di sé

Nel racconto Frammenti di un diario, il dolore non prende la forma del viaggio, ma della parola. È memoria di sé, un archivio vivo in cui l’emozione cerca rifugio nella scrittura. Non è la ricerca di un tesoro o di un futuro, ma il tentativo di dare forma a pensieri che appesantiscono il presente.


È il dolore dell’immobilità, che inchioda in un eterno adesso. Il protagonista indossa una maschera sociale, sorride solo con le labbra, mentre dentro di sé convive con vergogna, desiderio e violenza interiore. Eppure, proprio scrivendo, il dolore prende voce. Non è silenzio, è resistenza: la prova che una parte vigile continua a raccontare, anche quando tutto il resto vorrebbe smettere.


Qui la scrittura diventa sopravvivenza: un atto minimo ma radicale, in cui la memoria personale si fa spazio, chiede riconoscimento e spera, sottovoce, di essere ascoltata.


Il dolore che ritorna: la memoria come ferita riaperta – Il dolore come riemersione

Diverso è il caso del racconto Ti sblocco un ricordo e del suo protagonista Carlo. Qui il dolore non è più solo memoria, ma memoria che irrompe: un evento che travolge, che rompe l’argine.


Un dettaglio banale della vita quotidiana – un semaforo, la pioggia – diventa la chiave che apre un baule nascosto. Non è la madeleine di Proust, ma una lama che squarcia il presente.


La protezione eretta dalla coscienza cede, e il trauma infantile riaffiora con forza devastante. Odori, suoni, sensazioni corporee: non un ricordo pensato, ma un ricordo che si impone, obbligando a guardarlo in faccia. Eppure, anche qui, qualcosa cambia. Il bambino che eravamo sussurra qualcosa all’adulto che siamo.


Non solo ferita che si riapre, ma possibilità di integrazione e di cura. Il trauma, finalmente nominato, smette di essere un’ombra e torna a far parte di un sé più intero, più vero.


Il dolore trasformato: da peso a forza

In tutti questi casi, il dolore interrompe, conserva, trasforma. È un movimento circolare: ci ferma, ci costringe a ricordare, ci obbliga a cambiare.


Oskar esce di casa e affronta la città; James attraversa l’inquietudine e costruisce sé stesso; il diarista trasforma il silenzio in parola; Carlo affronta la memoria e la riporta alla luce. Dolori diversi, ma con una radice comune: diventano occasione di conoscenza, e quindi di libertà.


La vera forza, allora, non è vivere senza dolore, ma imparare a portarlo con noi.

Non come una cicatrice da nascondere, ma come una prova viva di ciò che siamo diventati.


Perché il dolore – interruzione, memoria, trasformazione – è il racconto più fedele del nostro passaggio nel mondo. E in quel racconto silenzioso delle ferite, forse, si nasconde la nostra più autentica verità.

 
 
 

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